di Mariantonietta Losanno
“Perché il cinema non è solo un’esperienza linguistica, ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un’esperienza filosofica”, ha scritto Pier Paolo Pasolini in Poeta delle ceneri. Quale altro cinema – se non, appunto, quello di poesia – poteva ispirare il progetto collettivo di Alice Rohrwacher, Pietro Marcello e Francesco Munzi. Futura si ispira ambiziosamente a Comizi d’amore, ritratto dell’Italia del 1963, girato da Pasolini durante un’interruzione per l’allestimento del Vangelo secondo Matteo. Anche l’intellettuale “scomodo” si è circondato di presenze amiche per realizzare il suo film-inchiesta: da Alberto Moravia, che ha commentato da un punto di vista estetico e morale l’andamento delle interviste, a Cesare Musatti, che ha inquadrato i problemi che man mano sono emersi da un punto di vista psicoanalitico. Quello di Marcello, Rohrwacher e Munzi è un disegno coraggioso che nasce dagli stessi presupposti, un esperimento lontano da un’analisi sociologico-statistica e mirato a capire il volto contraddittorio della realtà dei giovani divenenti.
“Ci siamo incontrati all’inizio del 2020 e siamo partiti all’arrembaggio, iniziando a chiedere a gruppi di giovani cosa immaginassero del loro futuro”, racconta Alice Rohrwacher. Hanno attraversato l’Italia – passando dalle grandi città ai piccoli centri – alla ricerca di risposte semplici alle domande più dirette sul Futuro. Ma chi sono questi giovani? Non sono ancora adulti, ma sono impegnati nell’arduo compito di diventarlo; vivono con una sorta di confusa ma reale istintività, legati a valori tramandati o costruiti ex novo. Quali sono gli obiettivi che si pongono, chi identificano come grandi o come maestri?
Dovremmo ricominciare da capo, da dove non c’è certezza. Dove c’è disillusione, forse anche disinteresse. Quello che emerge dal lavoro collettivo dei tre registi è un ritratto squilibrato, caratterizzato da obiettivi e progetti in contrasto tra loro. Anche in Comizi d’amore, d’altronde, Pasolini proseguì il suo percorso di disvelamento dell’insussistenza dell’equilibrio sociale italiano (cominciato, in maniera più poetica e compiuta, con La rabbia) e lo fece adottando lo stesso metodo delle opposizioni dialettiche: la bellissima bruttezza dei volti contadini corrugati e invecchiati anzitempo, e le faccette scialbe degli adolescenti piccoloborghesi. Tutto concorre – in entrambe le opere – alla costruzione di un pittoresco affresco (Pasolini lo ha chiamato ironicamente “Fritto misto all’italiana”), che quantomeno va discusso, se non compreso.
Rohrwacher, Marcello e Munzi si alternano nel fare domande, ponendosi con profondo rispetto nei confronti di un’umanità in divenire, impegnata nella lotta per la sopravvivenza; indagano le loro paure, provano a capire in che cosa – e se – credono e come si pongono nei confronti del passato, se in continuità o in conflitto. A sogni realistici si affiancano altri meno plausibili; i sentimenti dominanti, invece, sono proprio il timore di non farcela e di non disporre dei mezzi necessari per diventare autonomi. “Me ne voglio andare da questo postaccio”, dice uno dei ragazzi del nostro belpaese, se si può ancora definire così, come dice la stessa Rohrwacher. È la pandemia, poi, ad aggredire il Futuro, facendolo diventare ancora più immateriale e intangibile. Come ci si difende dai social network, che fine ha fatto l’amore nei loro progetti di vita da quando il Covid ha cambiato completamente lo stare insieme e la socialità? Futura (il cui titolo omaggia Lucio Dalla) diventa, allora, il “diario di uno stato d’animo contagiato”, costretto a riabituarsi a vivere in un mondo di cui non si riconoscono più confini, ancora più incerto, inconsistente.
Milano, Palermo, Napoli, Roma, Genova (su cui ci sofferma anche sui fatti del G8, avvenuti nello stesso anno di nascita di alcuni dei ragazzi), Venezia, Firenze: ci sono tutte le grandi città, e poi ci sono i paesi in cui ancora si vive con l’agricoltura – riconoscendone il valore – a cui la Rohrwacher dà sempre attenzione, in ogni sua azione cinematografica. Sono tante le voci che vengono (finalmente) ascoltate; voci consapevoli di non potersi rassegnare, di dover continuare a scommettere su loro stessi convivendo con il disincanto di chi sa che, probabilmente, sarà tutto vano. Bisogna disobbedire, allora, al destino. Opporsi, invertire la rotta o inventarne una nuova. Affidarsi alla cultura e allo studio, o dedicarsi al lavoro, ispirandosi “a quei Maestri che fanno dell’errore il loro primo valore”. Come sarà, tra vent’anni, per questi giovani rivedersi?