– di Vincenzo D’Anna* –
Da giorni le agenzie di stampa riportano le continue schermaglie polemiche tra i fedelissimi di Matteo Renzi e quelli di Carlo Calenda. La vecchia massima che due galli non possono coesistere a lungo nello stesso pollaio, comincia dunque a realizzarsi tra le fila del partito nato dalla fusione di Azione ed Italia Viva. Saranno stati forse i risultati non eclatanti ottenuti alle ultime elezioni regionali in Friuli ad esacerbare le due anime che compongono il cosiddetto Terzo Polo liberal-democratico. Tuttavia gli stessi protagonisti hanno già deciso di tenere un congresso il prossimo 10 giugno, per far nascere una nuova entità politica dalle fondamenta delle due sigle. Entità, si spera, “allargata” ad altre personalità del mondo liberal democratico e più in generale a quanti ritengono indispensabile avviare la proposta riformista per cambiare l’assetto delle istituzioni e la stessa carta costituzionale. In sintesi: per Matteo Renzi (ma anche per Carlo Calenda) dovrebbe essere una sorta di “prova di riparazione”, un atto di postuma resipiscenza di quella politica che l’allora premier e segretario del Pd, non volle attuare all’indomani del referendum costituzionale. Insomma: il revival di quello che fu definito, allora, il “Partito della Nazione”, in grado di coagulare esperienze diverse entro il solco del cambiamento degli assetti politici ed istituzionali del Belpaese. Eppure allora, nonostante la clamorosa gaffe di Renzi (ricordate? “o vinco o mi dimetto” disse allora l’ex rottamatore), che coagulò tutti i suoi detrattori sulla sponda del “no” al quesito referendario, il risultato fu comunque lusinghiero per i renziani visto che il fronte del “si” sfiorò comunque il quaranta percento dei voti espressi. Un viatico più che sufficiente per accogliere dentro ad un partito politico tutti i riformatori italiani. Come, invece, siano andate le cose è noto a chiunque abbia seguito la politica negli ultimi lustri: sconfitte elettorali, abbandono (da parte di Renzi) della segreteria del Pd; una manciata di seggi chiesta ed ottenuta dal suo successore alla guida dei Democratici ed infine la conseguente scissione. In sintesi: un percorso di furbizia e di obiettivi di sopravvivenza (politica e parlamentare) per l’ex sindaco di Firenze che non ebbe mai il respiro e gli orizzonti di quanto pure sdegnosamente aveva rifiutato qualche anno prima con il mai nato partito dei riformisti. Il soggetto in questione, è noto, si compiace della sua scaltrezza. È vanesio nel mostrarsi il più svelto nell’inquadrare il quadro politico e le prospettive da realizzare. Tuttavia ha scarse doti di visione nel lungo termine o forse, semplicemente, è tra quelli che preferisce le uova oggi alla gallina domani. Messosi, per stato di necessità con un altro protagonista a cui non manca la vanità e l’egocentrismo (Carlo Calenda), insieme i due hanno saputo racimolare una piccola ma significativa dote elettorale andando ad occupare la posizione di terzo incomodo tra centrodestra e centrosinistra. Non credo che Renzi e Calenda abbiano mai pensato di essere degli strateghi o di aver occupato il centro politico cosa, questa, che consentirebbe, in una logica bipolare e maggioritaria, di fungere da valore aggiunto sottraendo voti a chi, tra i due poli, ha in animo di vincere la gara elettorale. In ogni caso, sarebbe bastata una gita in quel di Ceppaloni dal maestro di questa tattica, Clemente Mastella, per risparmiarsi notti insonni oppure qualche licenza di accresciuta stima auto referenziale. Comunque sia, essendo la politica, sostanzialmente, l’arte del divenire, occorre guardare avanti e quel che è ancora più importante, bisogna saperlo fare in sintonia di prospettive politiche. Sono proprio queste ultime che sembrano venir meno in questa fase tra i due leader del cosiddetto “Terzo Polo”, il che significa che gli orizzonti prefigurati restano circoscritti al piccolo cabotaggio, alla sopravvivenza in termini politici. Insomma un grande marketing politico per vendere qualche illusione a quel ceto moderato e riformista che, in gran parte, da anni si è ritirato nauseato e stanco. Restano i pervicaci ed i tenaci che come elettorato valgono intorno al 10 percento degli elettori che, come pecore transumanti, si sono affidati, di volta in volta, a Berlusconi prima, a Salvini poi ed infine a Giorgia Meloni. Ma non bastano certo a creare quel grande partito riformista e liberale che potrebbe tener lontano dal potere sia l’ala destra sia quella sinistra, archiviando la politica degli specchi e dell’economia statalista e del debito pubblico che la fa da padrona in entrambe le estreme. La politica moderata della Meloni certo assorbe parte del consenso di questa frazione di elettori disponibili che insegue il quieto vivere, i piedi al caldo e la pancia piena. Resta però il bagaglio dei renitenti, degli scontenti, dei delusi a prescindere che è la parte attiva ed avveduta dell’elettorato, priva di desiderata assistenziali, italiani ai quali ancora si potrebbe chiedere il consenso. Non certo però per un partito di piccoli trafficanti, di litigiosi, ambiguo e duale che potrebbe avere come simbolo l’effige di Giano Bifronte.