di Mariantonietta Losanno
Il concerto s’ha da fare, a costo di rubare soldi, farsi arrestare, rovinare legami, distruggere ogni cosa. Ma perché è così irrinunciabile? Michele, Edoardo e Iacopo hanno bisogno di dimostrare di aver concretizzato quel tentativo (più che forzato) di riscattarsi, risollevando – così – anche la loro musica.
È necessaria una premessa su quello che ha rappresentato (e rappresenta) il punk. Innanzitutto, come definirlo? Uno dei tanti sottogeneri del rock, basato su un approccio violento, ruvido e diretto? Senz’altro, ma anche un fenomeno di costume che ha segnato nel profondo svariate espressioni artistiche; un veicolo di promozione per istanze sociali e politiche, non importa se – e quanto – estremiste e/o utopistiche; una forma di ribellione, individuale e/o collettiva, attraverso la quale esorcizzare le proprie frustrazioni. Nonché, a seconda dei casi, una rigorosa way of life, un modo per divertirsi e diventare “qualcuno”. Una volta “chiarito” che il punk è tutto questo (e che l’anno zero è – convenzionalmente – il 1976, quello degli esordi discografici dei Ramones e dei Sex Pistols), come stabilirne correttamente i confini stilistici e temporali? E come metterla con il cosiddetto garage-punk propagandato verso la metà degli anni Settanta da Sonics, Seeds o Chocolate Watch Band, o con le infinite contaminazioni con altri stili – dal gothic al metal, fino al pop – che via via hanno indirizzato il punk vero nuove frontiere sonore e (a volte) commerciali? Ci sono, quindi, prima di tutto una storia, una cultura e una tradizione da conoscere e – soprattutto – da difendere. E queste radici sono state protette sia dal regista Niccolò Falsetti, che dall’attore e co-autore Francesco Turbanti. “La nostra idea inizialmente era di fare un adattamento del libro che ci aveva folgorato in adolescenza, Costretti a sanguinare di Marco Philopat, che parlava dell’esperienza del Virus, prima occupazione anarchica di punk a Milano degli anni Ottanta. […] Poi a un certo punto, mentre ci mettiamo le mani anche concretamente, ci rendiamo conto che forse rispetto alla Milano degli anni Ottanta, per quanto bellissimo come periodo, non c’era un collegamento con le nostre vite, le nostre esigenze autoriali. […] E abbiamo detto: “Forse se c’abbiamo qualcosa da dire è raccontare quello che siamo stati noi. E noi siamo stati punk a Grosseto!”, e ci siamo messi a ridere”, ha raccontato Turbanti. È la musica, allora, ad essere protagonista, in tutte le sue forme. Ci sono i lettori mp3 (siamo nel 2008), i centri sociali, le collette per organizzare gli eventi. E poi ci sono tre ragazzi che portano avanti le loro idee, ribadendo che non si tratta di un fenomeno giovanile, né di una delle mode del momento.
Se anche esistesse un modo per sognare in piccolo, perché farlo? Non ci si dovrebbe ridimensionare né in base all’età né al contesto in cui si vive. Teoricamente. Perché, realisticamente, non si può fare tutto. I sogni andrebbero adattati – mai snaturati – alla realtà, ai mezzi e alle risorse di cui si dispone, alle conseguenze che (eventualmente) si potrebbero verificare. E tre ragazzi di Grosseto, senza un’occupazione e neppure un luogo in cui suonare, non possono ergersi ad eroi per realizzare la loro delirante impresa. Oppure sì, ma senza la vena eroica, né tantomeno quella consolatoria. La realtà degli artisti è quella che ci propone Falsetti; quella, cioè, in cui il comune (quando ci si riesce a parlare) non ha soldi per sovvenzionare i progetti dei giovani ed è più semplice rifugiarsi nell’idea che andando fuori si trovino altre possibilità. Però, per chi vive ai margini ma non si accontenta né (ancora) si pone come vittima, è essenziale riuscire a farcela. Fosse anche solo per dimostrarlo agli altri. Nonostante manchino i soldi per i trasferimenti della band e l’impianto acustico.
Falsetti realizza una prima e grande scommessa (come quella di Adam McKay): Margini (candidato ai David di Donatello nella categoria Miglior esordio alla regia) ha il sapore di una commedia coinvolgente, che non ha bisogno di compiacere. “Concerto punk sconvolge la città”: così titola il giornale la mattina dopo l’impresa dei tre “sognatori arrabbiati”, che ci ricordano i protagonisti de L’odio di Kassovitz. Il punk ce l’ha fatta (ha “bruciato”, come direbbe Massimo Ranieri), e anche la commedia. Ne avevamo bisogno anche noi.