di Mariantonietta Losanno
Non è un cinema astratto quello di Paul Thomas Anderson. Traccia sempre dei percorsi di ascesa e discesa, vive di contrasti, dilata il tempo, risolve con chiarezza. Mai in modo astratto. Eppure, scontrandosi con Thom Yorke, questa poetica cambia, come se trovasse una sua nuova dimensione, altrettanto vera e riconoscibile.
Per promuovere l’uscita del suo album da solista il frontman dei Radiohead si rivolge a Paul Thomas Anderson, come a voler concludere un percorso iniziato da anni. Nel 2016, infatti, il regista de Il filo nascosto ha diretto tre videoclip per il gruppo musicale di Yorke, Daydreaming, Present Tense e The Numbers, tutti estratti dall’album A Moon Shaped Pool. Anima si presenta come una sorta di viaggio. Si apre con Yorke in metropolitana, insieme ad una massa di lavoratori vestiti di scuro e addormentati. Incrocia lo sguardo di una donna (Dajana Roncione, proprio la compagna del cantante), poi iniziano a danzare – ancora assonnati – fino a che ci si sposta in un altro scenario. Nel secondo ambiente i movimenti cambiano, assumendo un ritmo differente, più frenetico e meno assonnato; il linguaggio principale è quello della danza, che si sostituisce ai dialoghi: la coreografia è di Damien Jalet, che Yorke ha incontrato durante la lavorazione di Suspiria. Ai due si è poi aggiunto Anderson, concludendo il lavoro in pochi giorni di riprese.
Sulle note di Dawn Chorus (che, insieme a Not the News e Traffic scandiscono i tre momenti del corto), le anime di Yorke e della sua amata finalmente si uniscono, si muovono libere tra le strade vuote di Praga all’alba. Il sole sta per sorgere – come ad indicare un tempo che sta per finire – e ci sono i lavoratori che li attendono per ricominciare da capo quel percorso. Si toccano ancora (per l’ultima volta?), poi si ripresenta di nuovo la stanchezza: tornano a dormire. È mentre Yorke canta “If you could do it all again, it’s time, it’s time” (Se potessi fare tutto da capo, è ora, è ora), che i due si concedono quel contatto finale, prima che finisca il tempo che hanno a disposizione. Però, più che suggerire l’idea di qualcosa che procede con fretta, Anderson sembra volersi soffermare su uno spazio di ascolto, come se ci fosse un momento preciso in cui è possibile sentirsi e avvicinarsi, che non avviene in un tempo illimitato. Si compie uno sforzo (più o meno gravoso, a seconda dei casi) nella comprensione di se stessi e dell’altro; c’è un tempo, allora, per “fare anima”, cioè per immaginare, creare, comprendere. E per acquisire una propria identità rapportandosi a chi abbiamo di fronte. Quel tempo va sfruttato a pieno, perché è spesso ostacolato da distrazioni, da pressioni esterne o smanie di omologazione create dalle mode o dalle tendenze, incoraggiate dalla convinzione che è più semplice somigliare ad altri e allontanarsi da quello che si è. “L’atto del fare anima consiste nell’immaginare: le immagini sono infatti la psiche, la sua materia e la sua prospettiva (…). Il fare anima è quindi equiparato alla deletteralizzazione: quell’atteggiamento psicologico che respinge con diffidenza il livello ingenuo e dato per andare in cerca degli umbratili, metaforici significati ch’essi hanno per l’anima”, ha scritto James Hillman, nel 1981 nel suo testo Psicologia archetipica. Allora, “fare anima” significa dimenticare le parole di uso comune che normalmente tengono vivo il dialogo, ricorrendo a strumenti interpretativi differenti: è un processo di purificazione del linguaggio e dell’Uomo stesso.
La musica di Yorke e la poetica di Anderson si legano insieme occupando quegli spazi vuoti tra i corpi che si avvolgono, si trascinano, si perdono. E ancora si fondono e si confondono. I due linguaggi si uniscono, come se fossero due proiezioni della stessa mente pensante.