Quando si utilizza il termine ‘problematiche’, non lo si vuole attribuire, ad esempio, alle difficoltà che un cieco o una persona su sedia a rotelle incontrano nel muoversi in modo autonomo e senza alcun supporto, anche se questi aspetti possono essere più o meno complicati per chi li vive, ma problematicità ancora maggiori si connettono al fatto che la disabilità, ancora oggi, è un mondo piuttosto sconosciuto al quale si associano stereotipi e pregiudizi ancor troppo marcati e demotivanti. La lente prevalente, attraverso la quale è vista, deriva da un’ ottica di tipo medico e/o socio-assistenziale, fondata su aspetti legati alla salute e a politiche di welfare e nonostante questo aspetto sia valido e consentito, non è però soddisfacente per aiutare a comprendere questa realtà. Nel corso di una lezione all’ università, la dottoressa Albertina Pretto, autrice del libro “PRIGIONIERI DI UNA DIAGNOSI: Punti di vista sulla disabilità” chiese ai suoi studenti: «Secondo voi, cosa vogliono i disabili?» e una studentessa ha immediatamente risposto con tono compassionevole: «Compagnia!», così come si suole dire pensando all’ anziana nonna allettata che non sempre abbiamo voglia di andare a trovare. Ma la disabilità è ben altro, tutt’altro e purtroppo ancora oggi non ne sappiamo abbastanza: molti sono gli aspetti ma tantissimi poco noti alla società più ampia. Per esempio: perché li chiamiamo disabili? Forse non tutti sanno che questo termine è entrato nell’ uso comune in tempi davvero recenti, circa dieci anni fa, come vale la pena di ricordare che è soltanto dai primi anni Settanta che parole come spastico o mongoloide, deficiente o infelice, orbo o storpio, utilizzati fino ad allora, senza alcun problema, per indicare persone affette da deficit fisici o psichici – sono avvertite come inadeguate rispetto all’ aggiornamento del dibattito politico, scientifico e sociale, e hanno quindi progressivamente lasciato il posto, prima, al termine handicappato o portatore di handicap e, successivamente, a disabile e diversamente abile.
Se ognuno rispettasse strettamente l’ etimologia della parola, il termine portatore di handicap non sarebbe poi così inadatto: il verbo inglese to handicap – provato già nel XVIII secolo – scaturirebbe dal nome di un gioco d’ azzardo, emanato nel XVII secolo, che consisteva nel nascondere con le mani, all’ interno di un copricapo, la posta in gioco (di qui hand in cap). Nei primi decenni del Novecento, la parola handicap sarebbe passata ad altri ambiti, tra cui quello medico-sociale, con espressione non sempre precisa ma comunque fondata sull’ idea di svantaggio, di incapacità fisica o mentale. Nelle loro accezioni medico-sociali handicap e handicappato sono stati avvertiti come termini legittimi (e semanticamente neutri) almeno fino agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso. Infatti, la Legge Quadro n. 104 del 1992 consigliava di normare “l’ assistenza, l’ integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”. In quello stesso periodo, il termine handicappato, entrato ormai a pieno titolo nell’ italiano di uso comune, era però usato anche con connotazioni non sempre gradevoli e si preferiva il più politicamente corretto portatore di handicap. Se tale termine fosse utilizzato per quello che significa, ossia portatore di uno svantaggio, di un ostacolo, possiamo dire che – in sé – non è poi così inadatto. Purtroppo, non sempre le parole sono usate semplicemente per il significato che hanno e ulteriori accezioni vengono loro attribuite in modo denigratorio o dispregiativo.
È proprio negli anni Novanta, quando nel nostro Paese prende vita il dibattito sul termine politicamente corretto si assiste ad un ricambio tra le abbinamenti handicap/handicappato e disabilità/disabile. Il passaggio è attuato anche a livello giuridico e, in particolare, nel testo della Legge n. 68 del 1999 sulle “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” compare il termine disabile. Anche in questo caso, il termine disabile – peraltro già impiegato dall’ Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) negli anni Ottanta – deriva dall’ inglese disabled. A questa parola si è poi accostata l’espressione diversamente abile, sempre in conseguenza degli sviluppi del politicamente corretto. Ebbene, ma che bisogno c’ è di parlare tanto di queste persone?
Forse non tutti sono a conoscenza che i disabili sono davvero ‘ tante persone’ e secondo l’ Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), circa il 15% della popolazione mondiale ha una forma di disabilità: si tratta di oltre un miliardo di persone che vive con una forma di limitazione funzionale e tale dato è in costante crescita non solo a causa dell’ invecchiamento della popolazione ma anche perché continuano ad aumentare le malattie croniche che colpiscono persone di ogni età. Inoltre, le persone disabili sperimentano in molti casi condizioni di vita più negative rispetto al resto della popolazione che vanno dalle difficoltà di accesso alle cure, al grado d’istruzione inferiore, tasso importante di disoccupazione e alti tassi di povertà. Si stima che in Europa i disabili siano più di 80 milioni e, secondo l’ ISTAT (2015) in Italia sarebbero circa 13 milioni le persone che hanno limitazioni funzionali, invalidità o cronicità grave. In Italia la situazione è leggermente più buona in quanto, nei recenti decenni, sono stati diffusi alcuni report sulla disabilità, ma anche questi ultimi sono spesso impareggiabili tra loro a causa delle diverse descrizioni conferite alla condizione di disabilità e dei differenti metodi di rilevazione e di misurazione statistica. Ma perché è così difficile definire la disabilità? Forse non tutti sanno che il concetto di disabilità è anche frutto di una costruzione sociale: i segni e/o le conseguenze di una malattia, di una menomazione, di una limitazione fisica o psichica, sono valutati in modo diverso anche in base alla cultura e alla società di riferimento. Inoltre una stessa limitazione, ad esempio quella visiva, può presentarsi in diversi individui con forme diverse e diverse conseguenze. Pertanto è estremamente complicato individuare in termini assoluti quali sono le condizioni e le situazioni attraverso le quali a un soggetto può essere assegnato lo status di disabile, status che a sua volta presenta differenti livelli. La disabilità è un fenomeno così eterogeneo che gli stessi sperimenti di classificazione da parte di enti nazionali e sovranazionali continuano a mutare, evolversi e aggiornarsi, cercando di trovare, in primo luogo, un linguaggio comune entro il quale far rientrare le molteplici declinazioni che si possono attribuire alla disabilità. Lo sforzo più recente in tal senso ha dato vita a l’ International Classii cation of Functioning, Disability and Health2 (ICF) che, elaborata nel 2001 dall’ OMS, è già in fase di revisione e aggiornamento. L’ ICF è uno strumento di classificazione e di descrizione della salute e dei possibili e differenti stati a essa associati, i cui scopi principali sono quelli di offrire un modello di riferimento per la comprensione e lo studio della salute e della disabilità, di stabilire un linguaggio univoco per migliorare la comunicazione tra i diversi utilizzatori (siano essi operatori sanitari, ricercatori, politici e popolazione, incluse le persone con disabilità) e soprattutto migliorare il confronto fra i dati raccolti nei 191 Paesi membri dell’ OMS che aderiscono all’ ICF. Facendo riferimento a quest’ ultima, ogni nazione può elaborare strumenti più mirati che possono tener conto dei molteplici rapporti che intercorrono tra corpo, mente, ambiente, contesti e cultura perché una persona resta tale anche con una diagnosi e non muta il suo “essere una persona, non la sua diagnosi”: non dimentichiamolo mai!
Come sempre un articolo di spessore. La disabilità e’ tra di noi e nn dv essere ” loro ” ad adattarsi a noi, ma, il contrario !!!e affinke avvenga qst dobbiamo puntare sulla conoscenza e sull ‘nclusione
Un articolo fortissimo, Dottoressa! La disabilità fa rima con normalità. Infatti, come afferma Daniele Cassioli, presidente onorario di Piramis Onlus: Siamo tutti disabili, qualcuno ce l’ha anche sulla carta d’identità. Quanti abbiamo una disabilità, un problema, un vissuto drammatico, una difficoltà.”
Grazie, Dottoressa, per aver scritto un articolo di tale importanza.
Giustissimo … bel saggio .. questo spero sia da insegnamento a molte e molte persone …
Correttissimo, i disabili sono persone, e soprattutto sono adorabili, vanno trattati da persone e non da disabili, perché l’unica nota stonante è proprio la loro disabilità, ma come noi e anzi più di noi, hanno una intelligenza eccelsa e sono persone care che hanno bisogno della nostra presenza
Grazie come sempre per questa nuova conoscenza sulla tematica da lei scritta.
È vero la persona non è la sua diagnosi ma purtroppo deve essere identificata con essa se fa parte della sua esistenza. Cara dottoressa me non spaventano le disabilità invisibili in quanto si notano, a me spaventano quelle invisibili e ce ne sono alcune come ad esempio l’autismo che non è identificabile dai tratti somatici… Un caro saluto e grazie sempre
Ebbene, ma che bisogno c’ è di parlare tanto di queste persone?
Forse non tutti sono a conoscenza che i disabili sono davvero ‘ tante persone’ e secondo l’ Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), circa il 15% della popolazione mondiale ha una forma di disabilità. Mai concetto è stato più vero e diretto. Grazie dottoressa per questo nuovo articolo che fa riflettere tanto
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