di Mariantonietta Losanno
Alice Rohrwacher ci riporta nell’atmosfera libera – quasi fiabesca – della “sua” realtà contadina. In Lazzaro felice è riuscita a rappresentare un mondo incontaminato, in cui le persone vivono di sentimenti puri e semplici e in armonia con la natura. Attraverso Omelia contadina dà nuovamente voce alla cultura contadina, ad un mondo che possono descrivere solo le persone che lo hanno vissuto. Ci sarà ancora questa possibilità di raccontarlo in futuro? È finita davvero la cultura contadina?
“Quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione, allora la nostra storia sarà finita. La nostra storia è finita”, così dice uno dei contadini al funerale più atipico e bizzarro di sempre. Alla commozione che caratterizza un momento di congedo segue, però, la potenza di un inno che incita alla vita. Un’omelia che si trasforma in un’azione vivificante: Omelia contadina è una lotta contro la distruzione dei valori della terra. È un atto di resistenza che simboleggia che l’agricoltura – e soprattutto la cultura – contadina, nonostante le umiliazioni e gli sfruttamenti, non può finire. È un’opera che conserva e difende “quello che resta”, rispettando quello che è stato per millenni (“Ci avete seppellito, ma non lo sapevate che eravamo semi”): ci si raccoglie in un momento di sofferenza – intriso di rimorso e di desiderio di rivendicazione – ma si “rinasce”. La Rohrwacher (reduce dalla nomination agli Oscar per il suo corto Le pupille, vincitrice a Cannes del Grand Prix Speciale della Giuria nel 2014 con Le Meraviglie e del Premio alla Migliore Sceneggiatura nel 2018 con Lazzaro felice) omaggia le sue origini (il padre era apicoltore) e realizza, insieme all’artista JR, un momento di celebrazione di un mondo ormai in declino. L’azione compiuta dal contadino che appare all’inizio e alla fine del corto – che si presenta come un narratore – è significativa: sbattendo i piedi in una pozzanghera, cerca di ottenere attenzione e sottolineare l’importanza di salvaguardare la propria cultura dallo sfruttamento incondizionato di territori e culture.
Omelia contadina scaturisce da un’unione artistica d’intenti. Jean René, in arte JR – che ha iniziato la sua carriera come artista di graffiti – è capace di cogliere anche le sfumature più intime e apparentemente scontate. Le “sagome” che vengono seppellite dai contadini sembrano simboleggiare una parte di ognuno di loro: i cartonati giganti sono la metafora del peso al quale devono tenere testa ogni giorno. I due artisti, legando il linguaggio della fotografia a quello cinematografico, celebrano la bellezza dei paesaggi rurali e la forza dei contadini che hanno sofferto miseria e povertà, ma hanno preservato la bellezza di cui possiamo godere tutti. Una “rivoluzione creativa”: un’azione cinematografica – ma forse anche politica e sociale – che comunica un’urgenza di combattere l’arroganza, l’ignoranza, l’incoscienza. E anche “il silenzio di chi sapeva e non ha alzato la voce”, assistendo inermi.
Custodire, difendere, preservare memoria: la fusione dei due sguardi (entrambi particolarmente attenti ad osservare luoghi e persone) si concretizza in nove minuti di poesia. Nel loro manifesto creativo si possono individuare i loro elementi caratterizzanti; Alice Rohrwacher protegge la sua “anarchia gentile”, quel bisogno – cioè – di rintracciare stupore nel vivere quotidiano, lasciandosi ispirare da cose (spesso anche da oggetti) minime, impercettibili, insospettabili. Ed è proprio questo spirito anarchico ma delicato a riportarci ad un’altra artista (di cui, probabilmente, la Rohrwacher ha ereditato qualche tratto): Agnès Varda, protagonista – proprio insieme a JR – di Visages, villages. In Omelia Contadina avviene un incontro magico: quello tra due voci capaci di animare, abitare – o riabitare – posti in cui la vita è sparita. Ne viene fuori una (piccola) inchiesta sociale, che tenta di restituire dignità a chi è stata tolta, custodendo l’esperienza. Per non avvelenare quello che serve per nutrirci.