di Mariantonietta Losanno
“Come si dice, / l’incidente è chiuso. / Il battello dell’amore / s’è spezzato / contro la vita circostante. / Tu ed io / siamo pari. / Inutile elencare / offese, dolori, torti reciproci. / Guarda come è pacifico il mondo.” Majakovskij ci guida – con le sue parole disperate – in un viaggio all’interno della sofferenza, quella che non riesce ad essere riempita dalla vita che continua.
Léo e Rémi sono i due protagonisti (tredicenni) del secondo lungometraggio (candidato agli Oscar) diretto da Lukas Dhont. Sono amici, o forse qualcosa di più. Non si pongono il problema di etichettare il loro rapporto, fino a quando i loro nuovi compagni di scuola iniziano a sospettare che possano essere legati da una relazione sentimentale. Quel sospetto, accompagnato da un forte pregiudizio, mette in difficoltà i due pre-adolescenti, incapaci di fare affidamento sulle loro identità (perché ancora provvisorie) e permette all’aggressività e all’odio di conquistare spazio. Nei loro momenti di gioco, così come nei loro momenti di riflessione, non ci sono mai state manifestazioni di rabbia, né soprattutto bugie. Ci sono sempre – e soltanto – stati due ragazzi, ancora inadatti a comprendere a pieno la forza dei sentimenti, o semplicemente in attesa di formarsi, di crescere. Insieme. Capaci, però, di tranquillizzarsi a vicenda, scegliendo parole sensibili, senza nascondersi. Le loro famiglie hanno incoraggiato il loro legame, perché – avendo una maturità diversa – ne hanno compreso l’intensità. È l’insinuazione del dubbio, la malizia, l’intrusione (più o meno innocente) nel loro rapporto, a mettere in discussione tutto. A far sì che subentri la paura, il bisogno di difendersi. Leo inizia ad impegnarsi nella squadra di hockey su ghiaccio, come a voler dimostrare la sua virilità, e allontana Rémi, per il timore che il pregiudizio si consolidi ancora di più. Dhont porta la sua storia nel suo Cinema, riuscendo – così – anche a distaccarsi da tutta la categoria (che conosciamo ampiamente) dei coming of age. In fondo, è quello che tenta di fare attraverso i suoi personaggi: sfuggire alle etichette.
Si sente, nella prima scena di apertura del film, una sorta di ammonimento: uno dei due amici zittisce (bonariamente) l’altro, per poi continuare il gioco. Quel monito privo di autorevolezza, ma dettato dal momento di divertimento, è illuminante. Ci sono tante parole a cui si potrebbe rinunciare e tante altre, invece, perse per sempre. “Tu e io siamo pari”, dice Majakovskij. Eppure, sembra tutto così iniquo. Due ragazzi giovani, insicuri e – legittimamente – impauriti che si scontrano con i più vieti stereotipi, come possono “vincere”? Sono inermi, fragili, vulnerabili. Quell’intrusione nel loro legame li rende esposti, facendo sì che prendano il sopravvento altri sentimenti e altre bugie.
“Hai un colore speciale” dice Léo a Rémi, così giovane ma così attento e abile ad osservare, a comprendere l’emotività del suo amico. Le persone che li circondano, però, hanno bisogno di catalogare quell’atteggiamento all’interno di un qualcosa di più conosciuto: è un’intimità troppo forte e troppo evidente. Ma anche troppo inaccessibile da sguardi che non hanno la loro stessa sensibilità. Quel qualcosa di inaccessibile diventa, allora, motivo di rabbia e desiderio (più o meno intenzionale, ancora) di invasione. Alle parole sbagliate degli “altri” seguono le parole serrate (e perse) di Léo e Rémi. Il mondo non è sempre pacifico.