“RICORDI?”: QUELLO CHE IL TEMPO DISTORCE E QUELLO CHE CONSERVA

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di Mariantonietta Losanno 

“Tu non hai ricordi brutti?”, chiede Lui, docente universitario di Storia romana a Lei, insegnante di liceo. Sono un Lui e una Lei potenzialmente declinabili in infinite (altre) versioni. Uno intrappolato nel suo passato, l’altra che guarda il presente, o addirittura il futuro. Ripercorrono, insieme, attraverso dei flashback, la loro storia: quali sono state le fratture che hanno causato la rottura e le giustificazioni che si sono attribuiti per de-responsabilizzarsi? Mentre Lei ricorda con l’intento di recuperare quel po’ di felicità annebbiata dal Tempo, Lui tenta di misurare quello che hanno vissuto. Cercando, cioè, di dare effettivamente senso alla durata della loro storia. In che modo? “La durata era una sensazione, la più fugace di tutte le sensazioni, spesso più veloce di un attimo, non prevedibile, non controllabile, inafferrabile, non misurabile”, scrive Peter Handke nel suo Canto alla durata, affidandosi alla poesia. Forse ci si illude, allora, di poter attribuire un senso, cercando nei luoghi, in cui ogni rimuginare si dissolve, e il pensare diventa un puro riflettere sul mondo.  

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Quello che caratterizza Lui è una tristezza che vuole necessariamente trovare una sua corrispondenza. È necessario che venga condivisa, per essere percepita. Ad un certo punto viene persino imposta, dopo essere stata incoraggiata da precise e continue domande. “Sono diventata bravissima ad essere triste, è anche un po’ merito tuo”, dice, infatti Lei alla fine. In realtà, era così anche l’inizio, ma è più facile raccontarsi altre verità, dando la colpa al Tempo che distorce i pensieri e amplifica/mistifica le sensazioni. Eppure, guardandosi dopo, quando si è più forti e più lucidi, sembra tutto così chiaro. Quel primo approccio – già improntato ad alimentare il dolore – era così evidente: “Ti sei intristita o sei insensibile?”, chiede Lui a Lei, dopo averle raccontato di un suo momento di tristezza e dopo averle suggerito di recuperare uno dei suoi. Da quel momento in poi, quella sofferenza diventa un linguaggio, di cui, però, bisogna conoscere i codici

La storia viene ripercorsa in modo discontinuo, non rendendo assoluto il dolore. È Lei che si oppone a questa versione, facendosi forza sul fatto che le cose devono cambiare, non restare sempre uguali. Cercando di deviare la direzione di quei ricordi. Se, però, non ci fosse modo di dare senso alla durata, e non esistesse neppure ripetibilità? Come se certe cose dovessero restare immobili, ferme in quel Tempo. Nonostante si torni in quegli stessi luoghi, forse non si trovano necessariamente le stesse cose, o le stesse persone. E bisogna dirsi, allora, di tutte le vite che abbiamo vissuto, di tutti quei sentieri percorsi, che cosa scegliamo di conservare. Quali ricordi difendere, quali lasciare andare alle conseguenze del Tempo. 

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Valerio Mieli (dopo Dieci inverni e guardando – coraggiosamente – al cinema di Ingmar Bergman e di Terrence Malick) realizza una complessa struttura narrativa, scegliendo di seguire l’alternarsi degli stati d’animo dei due protagonisti e il fluire dei loro pensieri. Attraverso i suoi (infiniti) Lui e Lei, suggerisce una riflessione sul vivere il durante, in contrapposizione al vivere il passato, con tutti i suoi dolori. Non esiste una consapevolezza definitiva, come suggerisce il punto interrogativo del titolo: tutto può essere costantemente essere messo in discussione e ridefinito. Ma può essere anche ripetuto?