“DECISION TO LEAVE”: TRA LE IMMAGINI E LE PAROLE, COSA PUÒ ESSERE PIÙ FACILMENTE MANIPOLABILE? 

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di Mariantonietta Losanno

Cinema dell’intrigo quello di Park Chan-wook, ma anche della riflessione e dell’intelligenza. Cinema che è messa in scena e spettacolo e che attua modalità che non concedono nulla all’estemporaneo e al gratuito. Non a caso, infatti, il regista sudcoreano è stato definito l’erede di Alfred Hitchcock. E, “Decision to Leave” potrebbe avere come riferimento – persino – “Vertigo – La donna che visse due volte”. Un’attribuzione che “pesa”, ma che Park Chan-wook accoglie con ammirazione. 

La suspense scandisce con rigore geometrico il succedersi degli avvenimenti: a una fase ascendente segue sempre uno scioglimento che propone un momento di quiete, permettendo allo spettatore di tirare il fiato e di prepararsi al successivo “assalto”. Affinché questo meccanismo funzioni, però, è necessario che lo spettatore sia a conoscenza di quanto accade nell’intrigo e di quali siano le forze che lo mettono in moto. Elementi che Park Chan-wook fornisce in modo chiaro, caratterizzando a pieno i suoi personaggi. Hae-Jun è un detective infallibile ma un uomo frustrato, che combatte l’insonnia lasciandosi inglobare dal suo lavoro e diventandone ossessionato. Tra i vari casi, si imbatte in un suicidio che potrebbe, in realtà, essere un omicidio commesso da una donna astuta e infallibile esattamente quanto lui, Seo-Rae. Così furba da riuscire a sedurre e manipolare, mantenendo salde le redini del gioco. Hae-Jun, però, non smette di fidarsi del suo istinto e trova un indizio della sua colpevolezza. 

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Park Chan-wook è consapevole del fatto che, per creare quella suspense – dal momento in cui guarda ad Hitchcock – è necessario che il film non sia solo un “gioco” a due (autore con il suo film), ma a tre (autore, film e pubblico). È necessario, infatti, investire lo spettatore nell’azione, facendolo partecipare. Così che possa condividere le insicurezze e gli incubi dei personaggi. Un esempio di cinema, quindi, che dell’identificazione non può fare a meno. “Decision to Leave” ruota costantemente intorno all’idea che tutto possa essere frutto di una propria proiezione. “Quando ti ho detto che ti amo?”, chiede il poliziotto a Seo-Rae, quando lei gli ricorda queste parole. Sono state reali? Sono state immaginate tanto da credere che siano state pronunciate? Lo stesso ragionamento vale nei confronti della colpevolezza e dell’innocenza, di cui non si definiscono più i confini. Il discorso si sposta, poi, sull’idea di amore che – in quanto tale – è una continua proiezione. Un’idealizzazione delle nostre speranze: non è vero (in parte) che “inventiamo” le persone che amiamo? Attribuendo loro ogni cosa che desideriamo che un ipotetico partner “ideale” possieda? E non è vero, ancora, che all’interno delle dinamiche sentimentali, si vada alla ricerca (ossessiva (?) di indizi che possano confermare che l’amore sia ricambiato? Quello che abbiamo immaginato come un vestito blu può essere, invece, un vestito verde, e da quel dettaglio possono scaturire conseguenze differenti: è possibile che non si possa conoscere a fondo una persona così come non si possa individuare il colore del suo vestito?! 

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È in questo modo che Park Chan-wook costruisce il suo “intrigo” (definito già come possibile “film dell’anno”), assorbendo dai riferimenti classici ma mantenendo la sua identità, mostrandosi in una fase artistica ancora più matura. Dopo sei anni da “Mademoiselle”, il regista sudcoreano sprofonda negli abissi della passione, insinuando – con intelligenza, appunto – dubbi e tormenti. “In alcune persone il dolore si diffonde lentamente, come l’inchiostro nell’acqua. In altre è un’onda che inghiotte”, dice Hae-Jun. Può annientare e ridurre a niente in modo rapido, senza che si abbia il tempo di reagire, o può manifestarsi gradualmente, come se desse il tempo di acclimatarsi. Park Chan-wook conosce entrambe le soluzioni e sa alternare parole ed immagini, così come si succedono la realtà e l’immaginazione. E sa come cambiare completamente registro, come sfruttare a pieno le potenzialità di ogni singolo dettaglio che mette in scena (gli scenari contrastanti di mare e montagna sono una prova), “insabbiando” indizi e sferrando colpi di scena.