di Mariantonietta Losanno
Una ragazzina ed un vecchio vivono su una barca. Lui aspetta – facendo il conto alla rovescia – il giorno in cui compirà diciassette anni per poterla sposare, dopo averla “salvata” quando era ancora una bambina ed averla accudita e cresciuta. Non hanno mai visto la terra, né avuto contatti con altre persone. O meglio, nel momento in cui chiunque si avvicina loro, il vecchio (di cui non si conosce il nome, come neppure della ragazza) si serve del suo arco per difendere la sua “amata” e allontanare chi prova anche soltanto a guardarla.
Il rapporto tra il vecchio e la ragazza è paragonabile a quello che Kim Ki-Duk intrattiene con il Tempo: cura e ossessione. Si ripresentano, dunque, gli stessi temi che hanno caratterizzato “Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera”, in cui erano condensate le riflessioni del regista sull’idea di spazio (inteso come luogo per conoscere approfonditamente se stessi) e di cattività (da concepire come reazione all’isolamento, al rigore, alle rinunce); i due concetti restano legati per tutto il corso della narrazione, come se non potessero muoversi autonomamente. Come se, addirittura, si “incastrassero” al punto di limitarsi a vicenda; quasi come se fossero legati “ad un sasso” che impedisce i movimenti e rende vincolati, costretti, (persino) succubi. Il binomio “spazio e cattività” si inserisce in un contesto di formazione, così come si presenta – paradossalmente – quello de “L’arco”. Il vecchio “educa” la ragazzina insegnandole quello che è giusto o sbagliato, senza comunicare realmente con lei. Parlano i gesti, molto spesso violenti, sublimati, però, dalla poetica di Kim Ki-Duk. In questo tempo sospeso, la vita “reale” ha un impatto troppo duro, che ferisce e quasi distrugge tutto quello che il vecchio ha faticosamente costruito. E bisogna, allora, proteggere con maggiore vigore e rigore, affilando le frecce dell’arco, migliorando la mira, “incattivendosi”. Il collegamento con “Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera”, allora, risulta – ancora – immediato. Entrambe le pellicole, infatti, si presentano come opere d’amore ma profondamente amorali, in cui Kim Ki-Duk lavora (volutamente) su sottrazioni e, nel momento in cui la parola perde il suo valore, ne acquisiscono uno più forte il suono, il contesto, l’emozione. E ritornano, poi, naturalmente le ripetizioni. Le stesse azioni, infatti, vengono ripetute morbosamente tutti i giorni: il vecchio ogni notte, prima di andare a dormire, accarezza la sua amata e le stringe la mano.
L’arco, oltre ad essere l’unico strumento comunicativo – espressione di violenza – rimanda anche all’arco temporale, che nelle opere di Kim Ki-Duk segue una sua traiettoria personale. Lo spettatore non può che adeguarsi ad un ritmo altalenante, ad una attesa estenuante, ad una difficoltà nel definire confini. Coesistono poesia e brutalità, in quella che potremmo definire come un’opera di “contemplazione”. Da osservare e analizzare; su cui fantasticare, attingendo dalla propria immaginazione per attribuire significati e dare senso ad alcune scene, soprattutto quelle finali. Rifiutando le parole – così come, ad esempio, aveva fatto anche in “Ferro 3” – il regista sudcoreano si serve di altri strumenti: l’arco, l’altalena, la barca. Questi tre elementi scandiscono il tempo e gli spazi, definendo il ritmo della narrazione. “Io sono l’acqua…semplicemente fluisco. Non ci sono sistemi o ideologie”: è lo stesso Kim Ki-duk a chiarire il senso del suo cinema, a definirlo ammaliante, folle, annebbiante. La solitudine e il dolore fungono da protagonisti, la brutalità di alcune immagini mette persino in discussione il sistema dei valori e, addentrandosi nel lato più oscuro dell’essere umano, penetra nelle ferite dei suoi personaggi e del suo pubblico.
Il rapporto tra il vecchio e la ragazza è, nella vita reale, è un legame tossico e violento. Eppure, negli spazi fuori dal Tempo che costruisce Kim Ki-Duk diventa accettabile, persino consentito. Eppure si tratta di possesso, non c’è nulla di concesso in un “amore” insano. Ma il regista fa sì che quel rapporto abusante diventi capace di gesti di tenerezza – come le continue carezze – impensabili e lo legittima. Quell’arco si mantiene sempre “teso”, puntato verso la sua vittima e, in qualche misura, anche verso il pubblico.