di Mariantonietta Losanno
Padraic si definisce un “brav’uomo”, felice, gentile. Conduce una vita tranquilla: vive insieme a sua sorella e a un’asinella che fa entrare in casa quando si sente triste. Ogni tanto beve, ma l’Irlanda non è un posto facile, ci si può sentire soli facilmente (e alienati, dato che si sentono in lontananza, sulla terraferma, i cannoni della Guerra Civile) e si possono cercare rimedi anche nell’alcool. Il suo amico più stretto, Colm, decide bruscamente di porre fine al loro rapporto. L’unica spiegazione che gli fornisce è che lo ritiene “noioso”, e che sente di non avere più posto per la noia nella sua vita. Quell’epiteto scatena in Padraic una reazione opposta a quella che il suo (ex) amico si aspettava; inizia, infatti, una sorta di “sfida” tra i due, uno cerca di allontanare l’altro per non essere più infastidito, e l’altro spera di persuaderlo affinché cambi idea. La situazione degenera quando Colm pone un ultimatum, pensando di stabilire un limite invalicabile, ma non ferma ugualmente la volontà di Padraic di riallacciare i rapporti.
Inisherin sembra essere un luogo “dannato”, destinato alla solitudine e alla disperazione. La vita “reale”, infatti, si svolge altrove: si possono solo percepire i rumori di quello che accade sulla terraferma. A Inisherin il tempo diventa un’ossessione: è questo il concetto cardine di cui si serve Martin McDonagh per sviluppare la sua analisi e soffermarsi sui rapporti umani, sulle “cose che durano”, sulle banalità della vita. La parola “noioso” si ripete continuamente, viene analizzata, contestata, protetta. “Se continueremo a “chiacchierare” il mio tempo si ridurrà. Non puoi smettere di essere noioso?”, dice Colm, facendo presente il suo bisogno di aggrapparsi a qualcosa che duri, che impedisca che il tempo gli scivoli addosso. Quali sono, allora, le cose che resistono? La poesia, la musica, i quadri. La gentilezza non dura, ed è meglio allontanare i rapporti in cui è necessario essere gentili. Meglio cercare (e sperare) che si possa trovare altro: il silenzio, la pace, il conforto.
McDonaugh (meno “combattivo” rispetto al precedente “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”) indaga quel confine che separa la passività dalla necessità di lasciare qualcosa al mondo. A Colm non basta quello che ha vissuto; non vuole aspettare – inerme – la morte, accontentandosi di quello che è stato, senza cercare altro. Creare musica diventa, allora, un modo per sfuggire a quel destino che il posto stesso in cui vive gli ha affidato. Padraic, invece, è soddisfatto delle sue conversazioni futili, delle sue bevute al pub; non ha domande da porsi perché non ha paure da combattere, fantasmi da sconfiggere. O crede di non averne, ignorandoli. Tra i due si crea, allora, una distanza: Colm sente l’esigenza di una progettualità, Padraic resta nel “qui ed ora”. Non è l’amicizia in sé a finire, ma l’idea che condividevano di quell’amicizia. Restare in un eterno presente, caratterizzato dalle stesse identiche azioni ripetute, o reagire di fronte all’avvicinarsi della fine. Il regista dialoga con i personaggi e con i luoghi, facendo emergere la noia e l’insoddisfazione che li abita. La casa di Colm, in pianura e affacciata sul mare, rappresenta il suo bisogno di “allargare gli spazi”; quella di Padraic è cupa, chiusa ed esprime il suo bisogno di rimanere fagocitato dalle sue abitudini e dal suo rifiuto di cambiare.
“The Banshees of Inisherin” (traduzione italiana “Gli spiriti dell’isola”), vincitore – insieme a “The Fabelmans” – ai Golden Globe, è un film “minimalista” perché concentrato su una dimensione essenziale, minuscola. Ma è da quella che prospettiva che sviluppa i suoi temi e si trasforma in un’opera complessa. Riflette sulla crudeltà del tempo e sul bisogno di mettersi in discussione, immaginando cosa possa rimanere di sé quando si arriva alla fine. Sono i legami a far sì che il ricordo di una persona resti vivo? O le cose che “ha prodotto”? In che modo si può lasciare una “traccia” di sé?