“LE OTTO MONTAGNE”: TROVARE IL PROPRIO POSTO – O “SPAZIO” – E LE PROPRIE PAROLE 

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di Mariantonietta Losanno

“L’amicizia è un luogo dove metti le tue radici e resta ad aspettarti”, è così che il Pietro (adulto) inizia a raccontare la sua storia – che poi procederà a ritroso – e il suo legame con Bruno, amico fraterno di montagna, conosciuto in un paesino della Valle D’Aosta dove ogni anno, in estate, andava insieme alla sua famiglia. Felix Van Groeningen e l’attrice Charlotte Vandermeersch – rispettivamente il regista e la sceneggiatrice di “Alabama Monroe” – adattano il materiale narrativo dello scrittore Premio Strega Paolo Cognetti e raccontano il senso di aderire agli spazi, la loro poetica (quella sviluppata dal filosofo Bachelard), il loro valore. E, in effetti, sin dall’inizio, le parole “luogo” e “spazio” diventano essenziali: intese come rifugi, protezioni, o anche (semplicemente) come scenari in cui si sviluppano degli eventi, come, appunto, l’amicizia. Pietro e Bruno (Alessandro Borghi e Luca Marinelli) imparano, insieme, a “fare le cose in due”; per motivazioni diverse (legate a dinamiche familiari, ma non solo), non erano, infatti, abituati a “sentire”, pensare, preoccuparsi per due. Il loro rapporto si basa, fin da bambini, sulla capacità di prendersi cura l’uno dell’altro: è Bruno che sta vicino a Pietro quando ha un attacco di panico che non riesce a riconoscere, ed è Pietro ad indirizzare Bruno verso un percorso di vita che non lo “snaturi”. Solo in età adulta, poi, la loro diventa un’amicizia “che non ha più bisogno di cure”. Nonostante questi presupposti, nel corso degli anni si perdono e non sempre si ritrovano facilmente.

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A fare da collante tra le varie circostanze è sempre e soltanto la montagna (protagonista assoluta, ma non “utilizzata” per celebrarne la bellezza paesaggistica): luogo ideale e idealizzato, accogliente e insidioso. È in montagna che emergono i primi contrasti tra Pietro e suo padre, che poi sfoceranno in una distanza assoluta. Sarà Bruno a “sostituirsi” come figlio, frequentando assiduamente la famiglia di Pietro, prendendo il suo “posto”. “A volte avrei voluto parlare con mio padre per dirgli che uno dei due suoi figli ha trovato la sua strada”: dice Pietro rendendosi conto di essere stato “affiancato” più che sostituito. Passano, poi, addirittura quindici anni in cui i due non si vedono: entrambi vanno alla ricerca (forse disperata) di se stessi, entrambi tentano di definirsi e riconoscere delle radici. Ed è ancora una volta la montagna – e un progetto da concretizzare insieme – a riunirli: è il tempo delle confessioni e delle prese di coscienza, dei tentativi di redenzione e delle promesse. Le cose assumono un’altra connotazione: Pietro ha scoperto di non essere adatto a vivere (solo) di montagna, e si è reso conto di voler scrivere, viaggiare, conoscere. Sono queste, ora, le sue radici. Bruno, invece, ha (ri)trovato la sua dimensione, o forse non l’aveva mai persa. E ha trovato anche una compagna. Cambiano le cose, ma soprattutto i confini: quelli reali e quelli immaginari. 

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“In certe vite esistono montagne in cui non è possibile tornare”: non tutti i “luoghi” – intesi anche come quelli dei ricordi – sono ripercorribili. Ci sono montagne le cui altezze o pendenze, arrivati in una determinata fase della propria vita, non sono più raggiungibili. Può essere la mancanza di energie ad impedirlo, o l’incapacità di non aver riconosciuto il tempo (la stagione della “leggerezza”, che si alterna a quella della “gravità”, come dice il padre di Pietro) “giusto”. Forse si è impiegato troppo a “trovare le proprie parole” e ad esprimere realmente se stessi. O si è arrivati troppo lontano, per poi poter tornare indietro.

“Le otto montagne” è un percorso di analisi e scoperta di sé e dei propri luoghi. Quelli in cui poter essere se stessi; una casa, ad esempio, intesa sempre rifacendosi a Bachelard, come “spazio della propria solitudine”. È una pellicola che segue un percorso in cui la fatica fisica non può essere annullata, ma, anzi, è condizione inevitabile e necessaria affinché si possa evolvere. È una storia di formazione che rimanda alla capacità di Linklater in “Boyhood” di aderire ad un Cinema che non è imitazione della vita, ma vita stessa. Paolo Cognetti ha messo per iscritto le sue due anime (quella più solitaria, che trova asilo in una vita frugale tra le Alpi della Valle d’Aosta, e quella cosmopolita, che ama gli incontri-scontri tra culture e persone) e la sua storia – o le sue storie – sono state adattate sullo schermo in modo da evitare eccessivi sentimentalismi per immergersi nei personaggi, condividendone i ritmi di vita. “Quello che nel cinema viene raccontato dai film catastrofici, in montagna è reale: viviamo in mezzo ai ruderi, ai villaggi abbandonati, ai segni lasciati da lavori in campi che ormai sono inselvatichiti. Da una parte nell’abbandono c’è bellezza, c’è del romanticismo, dall’altra c’è anche una forte nostalgia”, ha detto lo scrittore, che indugia – spesso – sulla questa nostalgia, tanto evidente e tangibile anche nella trasposizione cinematografica. “Le otto montagne” è un film sovversivo nel suo non esserlo affatto: nella sua semplicità e purezza, nell’intento di soffermarsi su un’amicizia maschile senza ridurre tutto necessariamente ad un rapporto di coppia o ad uno familiare, nel soffermarsi sul bisogno di equilibrio e di armonia. I centoquarantasette minuti sono “faticosi” perché si avvertono gli sforzi e i cambiamenti dei personaggi, ma mai per la fruizione di un film che, consente di riappropriarsi dei propri luoghi e anche di quelli estranei. E anche chi non vi ha mai messo piede in montagna – chi ha deciso di non farlo più o chi non può più effettivamente farlo – non può non riconoscerne il valore. Sia di farlo da soli che insieme a qualcuno. 

1 commento

  1. Interpretato magistralmente
    È educazione al rispetto, all’amore, è un cogliere il fascino della montagna che ci regala il silenzio i profumi, i colori
    Da vedere

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