di Mariantonietta Losanno
Adattamento dell’omonimo romanzo della scrittrice Bethan Roberts, “My Policeman”, dopo un breve passaggio in anteprima al Toronto Film Festival, è diventato una produzione Amazon Prime Video. La pellicola segue le vicende amorose di tre protagonisti (in realtà due, la terza è più un “tramite”), e segue un arco temporale che va dagli anni Cinquanta – quando nel Regno Unito essere omosessuali era punibile dalla legge – fino agli anni Novanta, quando si ricongiungono per stare vicino a uno dei tre, convalescente dopo un ictus.
Tom, Patrick e Marion non sono i protagonisti di un triangolo amoroso. O meglio, le premesse iniziali spingono a credere che sia così, ma la passione accennata viene messa a tacere presto per lasciare spazio ad un appiattimento generale che coincide (quasi) con quello imposto dalla legge. Quello che li unisce – che è proprio il motivo che lascia sperare nello sviluppo di una vicenda appassionata – è l’arte: Patrick è il curatore locale di un museo, Marion è una giovane laureata che vuole diventare un’insegnante e Tom un poliziotto che cerca di apprendere il più possibile da entrambi. Si scambiano idee, si soffermano in estasi di fronte ai quadri, citano libri. Quello che li lega, quindi, spinge a credere – e a sperare – che si possa concretizzare una forte passione amorosa, al di là dei vincoli imposti dalla legge. Non entriamo nel merito della questione legale, più volte affrontata (non solo al cinema), per concentrarsi, invece, sulla vicenda amorosa. Tom e Patrick accettano fin troppo facilmente quelle che sono le condizioni del tempo, lasciando che le cose seguano il loro corso, senza opporsi né alle leggi, né al tempo. È Marion a fungere da “tramite” (o da collante) e a dare loro la possibilità di stare insieme, come se li “autorizzasse”; fino alla “fine” i due non sembrano fremere (o meglio sono in grado di reprimersi tanto da non mostrarlo) per stare insieme, neanche quando le condizioni di salute di Patrick iniziano a peggiorare.
Non si può definire, quindi, un amore che “sfida” il tempo, che tenta di manifestarsi nonostante sia proibito; non si avverte il tormento, la sofferenza, il desiderio. La messa in scena si “adagia” restando in equilibrio su una linea di piattezza che non azzarda mai azioni inaspettate. È quello che si potrebbe ”etichettare” come un prodotto prevedibile, che si conclude con un finale altrettanto ipotizzabile e che non stupisce particolarmente. I sentimenti più forti, paradossalmente, sono quelli espressi da Marion che, da “esterna”, si pente e cerca di redimersi, che si “muove”, non resta immobile ed inerme. O, meglio, smette di farlo, anche se ci mette del tempo. È l’unica dei tre a prendere una decisione, a esporsi, ad esprimere un desiderio di libertà.
“My Policeman” non si affanna alla ricerca di una regia sorprendente, conscio del fatto che prodotti del genere (arricchiti da attori “giusti”) vanno avanti da soli, senza neppure troppi sforzi. Lontano anni luce da capolavori che si focalizzano su triangoli amorosi (non è possibile neppure parlare di riferimenti come “Jules et Jim” o “The Dreamers”), la pellicola vuole mantenere una linea piatta, senza definire un’identità, proprio per la scelta di essere “correttamente piatto”, piacevole, ma facilmente dimenticabile.