“UN SAPORE DI RUGGINE E OSSA”: JACQUES AUDIARD “IMMERSO” TRA STATICITÀ E MOVIMENTO, FORZA E FRAGILITÀ, PREGIUDIZI E CLICHÉ

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di Mariantonietta Losanno 

Liberamente ispirato alla raccolta di racconti di Craig Davidson, in “Un sapore di ruggine e ossa” si ritrovano i temi di Jacques Audiard, declinati, però, in un’altra forma, o meglio, in un “altro corpo”. Se nella sua ultima opera “Parigi 13Arr.”, si affrontavano le identità provvisorie intente a definirsi all’interno di una società “liquida” (quella dai legami fragili, che racconta Bauman), in “Un sapore di ruggine e ossa” ci si sofferma sui corpi, spostando l’attenzione dai “vuoti” emotivi che Camille, Nora e Amber tentavano di accettare e di colmare, a quelli del corpo, le menomazioni. 

Ali ha un figlio di cinque anni che conosce appena. Incapace di crescerlo e di mantenersi autonomamente, si trasferisce da sua sorella, che – di nuovo – conosce appena. Trova lavoro come buttafuori in una discoteca e conosce Stéphanie, coinvolta in una rissa. L’approccio “goffo” (dettato da quello che potremmo definire banalmente un “pregiudizio” e che è, in realtà, un concetto molto più complesso nonché il fulcro dell’intera opera) di lui lascia pensare che non si incontreranno più; dopo che lei subisce un grave incidente, però, si avvicinano. 

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Quello che emerge sin dalle prime scene è che il personaggio di Ali sia completamente inadatto ed ineducato ad amare; prima ancora di comprendere i sentimenti, è restio al dialogo, alla gentilezza, all’affetto. Non riesce ad avere rapporti con nessuno: né con sua sorella, né con gli animali, né tantomeno con suo figlio. Non ha neppure coscienza dei pericoli, di quelli in cui si imbatte da solo e di quelli che coinvolgono anche altre persone. Per fare soldi facili e veloci entra in un giro di combattimenti clandestini, “studia” le mosse giuste (facendo partecipare anche il figlio durante uno di questi momenti di “apprendimento”, addirittura incitandolo a guardare la “bravura” di uno dei due sfidanti) e inizia a guadagnare. Quei primi guadagni, però, li porta alla sorella. Ali è un personaggio (solo in parte) complesso; vive di un pregiudizio – quello che lo vede come un uomo inaffidabile, rozzo, cinico – e si adagia su quell’idea precostituita. Vive come crede sia giusto vivere per “uno come lui”. Proprio per questo, Stéphanie è consapevole che non giudicherà la sua menomazione e, poco tempo dopo il suo incidente che le ha provocato l’amputazione delle gambe, lo chiama. Sa che, dopo averla giudicata per il suo modo di vestire “legittimando” la violenza che ha subito la sera che si sono conosciuti in discoteca, non avrà problemi a trattarla senza “riverenze”, con quella stessa “volgarità” di cui, però, ha bisogno per non sentirsi compatita. Il film compie un “movimento rischioso” concentrandosi sul rapporto tra Ali e Stéphanie, sulle loro diverse menomazioni, sui pregiudizi di cui sono “marchiati”. Audiard si assume il rischio, mettendo in scena una storia d’amore (anche se è riduttivo definirla una storia d’amore) in un universo di emarginati, di persone a “pezzi” che provano a ricostruirsi; abbandona la retorica e i cliché per concentrarsi sul desiderio di riappropriarsi di sé, di sentire il proprio corpo, di ritrovare la forza e di canalizzarla nella direzione giusta. 

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Lo spettatore è “immerso” all’interno dei personaggi, segue i loro percorsi, partecipando ai loro miglioramenti; Ali e Stéphanie offrono l’uno all’altro quello di cui hanno bisogno, abbandonando difese e resistenze: lui le dà il suo corpo, lei la sua sensibilità. Da premesse improbabili – dettate, ancora una volta, da un pregiudizio – possono emergere opportunità concrete di rinascita.