“A PROPOSITO DI DAVIS”: I COEN, IL FOLK E LA “STANCHEZZA” – O LA RESPONSABILITÀ (?) – DI SENTIRSI SCONFITTI 

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di Mariantonietta Losanno 

C’è stato un tempo, prima dell’arrivo – e del “dominio” – di Bob Dylan, in cui il Greenwich Village era la dimora dei folk singer, dei locali (in particolare il Gaslight Cafè, al 114 di MacDougal Street, tra Bleecker St. e West 3rd Street) in cui si “rifugiavano” musicisti di talento che cercavano di vivere della propria musica: tra questi Llewyn Davis, rimasto solo dopo aver perso l’altra parte del duo.

Tagliato fuori da tutti, continuamente “bastonato” – punito, sia in senso fisico che metaforico – e vittima di una serie di coincidenze sfortunate che, a volerle mettere in pratica intenzionalmente, non ci si riuscirebbe. Ogni sua azione produce conseguenze irrimediabili o quantomeno negative; in ogni interazione o relazione c’è astio, rancore, frustrazione: resta solo la musica, che insegue “fino in fondo”, rinunciando anche ad avere – prima ancora di un ricavo – un tetto sopra la testa. Passa da un divano (o anche un pavimento) all’altro, inseguendo il suo progetto, compromesso – in parte – dalla rinuncia del suo partner.

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Llewyn è l’esempio tangibile di quanto sia difficile (e spesso avvilente) investire ogni propria risorsa verso un’idea, un “piano”; è la prova di cosa significhi compromettere la propria vita giustificando ogni cosa con il semplice motivo dell’intento di “arrivare”. Arrivare dove, esattamente? Quello che i Coen hanno saputo mettere in scena in modo “rassicurante” ed efficace, come se si trattasse di una favola (così come hanno fatto nell’ultimo “La ballata di Buster Scruggs”) è il senso di “straniamento” che si prova nel voler ostinatamente essere “capiti”. Questo è il senso dell’arrivare: più che cantare sui palchi più importanti, o essere ascoltati dalle folle, si tratta di un riconoscimento – accompagnato da un auto-riconoscimento – di merito. E la prova di questo è proprio il fatto che quando a Llewyn viene concessa la possibilità di aprirsi, cantare ed esporsi, la risposta è solo “non ci vedo tanti soldi qui”.

A questa frase segue uno sguardo di rassegnazione e rimorso: da una parte si acquisisce piena consapevolezza di aver terminato i tentativi possibili per ottenere la propria occasione, e dall’altra si rimpiange addirittura di averci messo così tanta emotività nel perseguire quell’“idea”. Perché è quella che viene distrutta: l’idea. Quella costruita con impegno e dedizione, e che viene demolita da una realtà in cui non è la competizione a impedire il successo, ma la richiesta di fondo, che non combacia con quelle delle “folle”. Ed è allora che si capisce di essere semplicemente “stanchi” di insistere ancora. 

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C’è, però, anche un altro aspetto: la colpa. Llewyn “si lascia vivere”; nonostante rifiuti la vita “borghese” e preferisca un’altra strada, non è comunque in grado di essere padrone delle proprie scelte. Non riesce a costruirsi alternative, né di assumersi delle responsabilità. A un certo punto, allora, quel “progetto” tanto ambito diventa anche un qualcosa a cui appoggiarsi per rimandare il momento in cui bisogna fare  i conti con i propri errori. I Coen sembrano – in qualche modo – a loro volta “giustificare” i comportamenti di Llewyn dipingendolo come una vittima per cui impietosirsi; accrescono, cioè, quell’immagine di un uomo inerme che viene continuamente “punito” da tutti e da tutto, che non è mai “abbastanza”. Non eccelle, né impara a fortificarsi dalle sconfitte. Però, se davvero si dovesse essere consapevoli di avere del “genio”, andrebbe difeso, non trattato con incuria o superficialità. E forse, per arrivare a essere capiti, bisogna anche porsi nella condizione di farsi capire.