di Mariantonietta Losanno
Quello di Céline Sciamma è un cinema che, mettendo in scena continuamente delle trasformazioni, a sua volta si trasforma, aderendo al vissuto dei suoi personaggi. Un cinema che presuppone un percorso di autoaffermazione e di scoperta di sé; che vuole evolversi ed emanciparsi, suggerendo – ma mai imponendo – intenti politici e, naturalmente, morali.
“Ritratto della giovane in fiamme” si presenta, per certi versi, meno coerente con la filmografia della regista francese: il suo quarto lungometraggio – paradossalmente – si “chiude” nelle immagini, sopprimendo alcuni sentimenti. La passione resta esplorata per metà, in parte soffocata; si avverte l’impulso di uscire da alcuni spazi i cui confini sono tracciati – o “disegnati” – in modo da imporsi come reali limiti.
La pellicola – ambientata nel 1770 – si concentra (inizialmente) su due personaggi femminili: una pittrice di talento e una giovane donna da ritrarre. Nonostante il dipinto venga commissionato da sua madre, Heloïse non ne è a conoscenza e a Marianne viene chiesto di “osservarla” di nascosto, fingendo si essere la sua “dama di compagnia”, così da poter realizzare il ritratto senza che se ne renda conto, perché – altrimenti – si rifiuterebbe. Heloïse è la promessa sposa (o, meglio, la sposa “sostituta”) di un uomo a cui è obbligata a legarsi. Marianne comincia a conoscere la sua storia attraverso i racconti della sua governante (che, successivamente, diventerà una terza protagonista della vicenda, insieme alla madre di Heloïse) e, in un secondo momento, tramite Heloïse stessa, che, lasciandosi osservare, al tempo stesso inizia ad osservare la sua pittrice. Questo continuo analizzarsi e studiarsi, indugiando su specifici dettagli del corpo (le orecchie, le mani, il sorriso) porta al manifestarsi di un desiderio, prima di affermazione di sé e poi sessuale: le due iniziano a conoscersi e poi a cercarsi, a desiderarsi. La passione – per quanto tangibile – resta in parte soffocata, destinata a placarsi. Come un fuoco che viene spento.
Céline Sciamma, nel “dipingere” i suoi personaggi si allontana da pregiudizi e costrizioni, dimostrando i suoi intenti sin dall’inizio: ritrarre. Con degli specifici motivi: comprendere che cosa significhi dipingere un soggetto (come, cioè, lo si vede e come quest’immagine possa combaciare con la proiezione di sé della persona ritratta), qual è il valore della pittura (che può essere un modo per “guardare” il dolore, oltre che per imprimerlo nella memoria), quanto possa essere regalato ad un unico soggetto (era vietato, infatti, ritrarre uomini proprio in quanto donne, come a “voler impedire di realizzare una pittura di livello, negando le nozioni di anatomia maschile”). Così come afferma Marianne, la regista si “prende del tempo per osservare” (proponendo un’esperienza cinematografica “lenta”), per cercare un’immagine coerente di sé e della sua sensibilità. Rinuncia alle parole, a meno che non siano strettamente necessarie: sono le immagini l’elemento portante della narrazione. Quel “fuoco” impresso nelle immagini e negli sguardi resta, però, non del tutto “sviluppato”, mantenendo il distacco – ad esempio – da opere ad alto tasso erotico come “La vita di Adele” o “Carol”.
Non c’è, poi, nessun accanimento forzato sul concetto di “femminismo”; nessuna volontà di definirlo, di aderirvi o di non aderirvi, di stabilire dei “margini” entro i quali stare. Céline Sciamma dimostra l’intenzione di “riprodurre immagini all’infinito”, da cui poter attingere quando necessario. Immagini che dilatano il tempo, che raccontano la “vita”, la “persona”. L’unica immagine a non essere imposta è quella che propone una configurazione di concetti così complessi e delicati come quello del femminismo: questa pretesa non potrebbe legarsi all’idea di cinema libero, intimo, puro.