di Mariantonietta Losanno
È un’organizzazione “invisibile” la “Quarta mafia”: è vasta, violenta e si muove indisturbata. La “società foggiana” (il cui capo indiscusso Giosuè Rizzi ha guidato gli affiliati nelle guerre contro campani e salentini) ha come tratto distintivo – in modo più marcato rispetto alle altre tre organizzazioni più note – la violenza: brutale, senza distinzioni, priva di scrupoli. Ed è “invisibile” anche perché non è stata mai raccontata: Pippo Mezzapesa ha scelto – ancora una volta – di concentrarsi su una realtà sconosciuta, attingendo dalla storia della prima collaboratrice di giustizia della mafia garganica Rosa Di Fiore. Nel suo lavoro precedente – “Il bene mio” – Mezzapesa ha raccontato di un paese fantasma nella campagna pugliese, Provvidenza, distrutto da un terremoto. L’ultimo abitante – quello più ostinato – non ha voluto abbandonare i propri ricordi, facendo “il proprio bene”, abbracciando ogni singola maceria del suo paese. Il regista (ri)torna sull’idea di “invisibilità”, questa volta legandosi ad una realtà spietata e passionale: “Ti mangio il cuore” racconta la storia di Marilena che, a causa dell’amore incontrollabile per un uomo “proibito”, finisce per diventare prigioniera della famiglia rivale.
“Da anni seguo con attenzione il fenomeno delle faide che macchiano di sangue la regione del Gargano, un aspro e crudo promontorio di ammaliante bellezza. […] L’omonimo libro di inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, che offre un’analisi dettagliata delle organizzazioni criminali del Gargano e si avventura nei meandri di una nuova e sconosciuta mafia, mi ha spinto a immergermi completamente in questo mondo”, ha raccontato Mezzapesa. Quella di “Ti mangio il cuore” – presentato alla 79esima Mostra del cinema di Venezia – è una storia di deumanizzazione: è un racconto estremo, in cui non ci sono “gradazioni” di violenza, ma una linea di continuità che inizia con il rumore degli spari della prima scena e si conclude con una pistola “simulata” da un bambino nell’ultima. La pellicola rimane costantemente “in eccesso”: non c’è il tempo per riprendere fiato da un’azione di violenza all’altra. Si tratta, poi, di una violenza “nuova”, non perché inedita (c’è un’ampia filmografia sul tema), ma perché è così assoluta da risultare diversa, ancora più brutale. Una violenza che ha un’altra “faccia”, in cui anche il sangue “cambia sapore” ed è più scuro.
Il personaggio di Marilena (interpretata dalla cantante Elodie) ricorda quello di Rosa in “Una femmina”; a differenza sua, però, quando le viene chiesto, “non guarda a terra”. Come lei resiste finché può e poi scappa, “perdendo il potere” secondo la logica dell’organizzazione, ma concedendosi un’altra possibilità per sopravvivere. Il film non vuole aderire necessariamente ai dettami del racconto di mafia, presentandosi come un’opera “libera”, che si slega – pur ricordando la pellicola di Francesco Costabile distribuita solo pochi mesi fa – da riferimenti e si impone come atto di testimonianza coraggioso su una realtà che, se solo vogliamo guardare gli avvenimenti dell’ultimo anno nella zona di San Severo e Manfredonia, uccide continuamente.
Il bianco e nero si presta al racconto “antico” e “animalesco”: “Ti mangio il cuore” è una storia di “animali” che combattono e che – per dimostrare di avere vinto – lasciano un segno ancora più violento. Mangiano senza essere mai sazi. Mezzapesa, invece, la sua “sfida” l’ha vinta facendo luce su un territorio votato alla criminalità e che non è stato mai posto all’attenzione mediatica. Non c’è spettacolarizzazione, perché lo scenario non ne necessita: anche le azioni più “forti”, che potrebbero far pensare ad un’enfasi per rendere più “cinematografica” la vicenda (le varie punizioni inflitte o il sangue “assaggiato”) sono reali e funzionali a rendere il racconto disperatamente vero. Verrebbe da chiedersi in che modo contrastare una lotta tra animali che non ammette limiti: come distruggere un’organizzazione che – a differenza delle altre “storiche” – non ha regole di condotta o condizioni a cui è possibile appellarsi per porre un freno. Animali che mangiano, che “marchiano” le vittime, che assumono ruoli diversi – una volta pecora, una volta lupo – ma che, in ogni caso, vanno incontro allo stesso destino. Non si sopravvive a vivere come bestie.