di Mariantonietta Losanno
L’ultima pellicola di Emanuele Crialese – presentata alla 79esima Mostra del cinema di Venezia – mette in scena tutto quello che avviene in profondità e non in superficie; quello che si annida in spazi nascosti, stretti, asfissianti. Ci troviamo a Roma, negli anni Settanta; una coppia si è appena trasferita in un nuovo appartamento insieme ai loro tre figli, Adriana – che vuole essere Andrea – riesce ad avvertire in modo più tangibile le tensioni nel matrimonio dei genitori. Clara e Felice, infatti, non si amano più, ma rimangono insieme perché legati da quei “Lacci” che tengono unite le persone anche quando restano soltanto rancore e sofferenza.
Il regista si confessa, uscendo dal “suo” mondo nascosto: si apre al pubblico attraverso i suoi personaggi, accomunati da una condizione di emarginazione. “Dobbiamo essere coraggiosi per avere i poteri”, recita una delle battute del film: per avere coraggio bisogna possedere particolari potenzialità, ma – al tempo stesso – per avere capacità soprannaturali bisogna essere necessariamente coraggiosi. Un concetto – quello di coraggio – che consiste (anche) nella capacità di accettarsi e farsi accettare dagli altri. Il film, infatti, ruota intorno a personaggi “nascosti” che cercano di “emergere”. Adrì vuole poter essere se stessa, Clara vorrebbe – in forma condizionale perché dimostra meno consapevolezza rispetto a sua figlia – lasciare suo marito prima che sfoghi tutta la sua violenza contro di lei. Due personaggi che vivono “ristretti”, che cercano spazi e luoghi di espressione alternativi. Da un lato c’è il percorso di Adrì che ricorda quello affrontato da Céline Sciamma in “Tomboy”, che è prima di tutto una storia di formazione e scoperta di sé; un’opera che si concentra su adolescenti alla ricerca della propria identità e sessualità, che, dopo essersi “scoperti” devono anche trovare il coraggio di accettarsi. Crialese non drammatizza la questione, protegge la tematica che affronta superando la categorizzazione incentrandosi, invece, sull’itinerario personale. Clara ricorda Alba Rohrwacher nell’adattamento del romanzo di Domenico Starnone (il già citato “Lacci”): una donna che, nonostante l’infedeltà e la consapevolezza di aver perso il rispetto di suo marito, si ostina a restare in una condizione che la rende disamorata e la porta ad annullarsi. Costringe se stessa a vivere nel disastro e nel dolore.
Crialese si serve della musica per scandire i momenti fondamentali della sua opera: cita i classici della canzone italiana, come Adriano Celentano, Patty Pravo e Raffaella Carrà. Icone rivoluzionarie e fonti di ispirazione. La sua “immensità” è composta dal dramma borghese, dal desiderio di appropriarsi del proprio corpo, dalla famiglia, dall’amore, dalla sessualità, dalla corrispondenza tra realtà e finzione.
“È la mia storia in chiave poetica, sarebbe riduttivo definirlo il mio “coming out”: il pubblico penserebbe ad un film sulla transizione ma non è affatto così. […] È il film che inseguo da sempre: è stato “il mio prossimo film”, ma ogni volta lasciava il posto a un’altra storia, come se non mi sentissi mai abbastanza pronto, maturo, sicuro. È un film sulla memoria che aveva bisogno di una distanza maggiore, di una consapevolezza diversa”, ha raccontato il regista. Una riflessione che ci spinge a chiederci perché essere coraggiosi, perché lottare per riuscire a “riconoscersi anche senza guardare”, perché andarsene quando è necessario salvaguardare se stessi.