di Mariantonietta Losanno
Il 30 ottobre 2015, al Collectiv di Bucarest, un incendio provocò la morte di ventisette persone e il ferimento di oltre centottanta. Nei giorni immediatamente successivi morirono altre ventisette persone per infezioni sviluppate negli ospedali romeni; migliaia di persone scesero in strada a protestare contro le autorità, portando alle dimissioni il governo di allora.
“Collective” (presentato in anteprima alla 76esima Mostra del Cinema di Venezia e candidato agli Oscar 2021 come miglior documentario e miglior film straniero), è una rappresentazione lucida e brutale che, per la scansione degli eventi, sembra addirittura un racconto di finzione. Entrano in campo più “forze”: prima fra tutte, la Sanità, che non rispetta alcun protocollo, nonostante le autorità parlino di “cure degne della Germania”. Persone che avevano riportato ustioni solo per il 15% sono morte a causa di infezioni batteriche dovute all’utilizzo di disinfettanti diluiti dieci volte; i medici, addirittura, coprivano con un lenzuolo i pazienti pur di non vederli, pur di non assistere alla perdita totale di umanità. Seconda forza in campo, poi, la libertà di stampa e la volontà di aderire ai criteri di un giornalismo sano che non cede ai ricatti né mette in atto vendette; Cătălin Tolontan – cronista sportivo e leader in questa lotta – è l’espressione dell’intento di voler fare informazione, senza scendere a compromessi. Senza, cioè, arrivare a mettere in atto gli stessi comportamenti corrotti. Quando, infatti, le persone cominciano ad appoggiare la sua “battaglia” lui insiste affinché non si inciti all’odio e alla violenza. Ribadisce, quindi, il rifiuto di quella “funzione retributiva” di epoca premoderna portatrice di intenti vendicativi che, nonostante sia stata (ampiamente) superata viene spesso riportata in auge quando ci si accanisce contro i colpevoli. Il punto è che, in questo caso, ci sarebbe da accanirsi, ma non da incattivirsi. Non si combatte una lotta (in partenza iniqua) utilizzando la stessa violenza che si cerca di raccontare. “Nel giornalismo non c’è nessuno scopo finale, se non quello di attribuire coscienza alle forze che modellano le nostre vite”, dice Tolontan. Si tratta, quindi, di rendere consapevoli le persone, mai di fomentare odio; il giornalista insiste sull’utilizzo di un linguaggio corretto, preservando la libertà di stampa e tutelando il giornalismo “vero”, più che onesto.
Altri attori in campo sono, sicuramente, i leader politici. Ed è necessario – soprattutto nella fase attuale – soffermarsi sul valore del diritto di voto, sulla scelta di chi può rappresentarci. Sull’aderenza a valori, idee, rispetto della vita. Perché di questo stiamo parlando: di vita. Nonostante sembri un racconto di finzione, dobbiamo rassegnarci di fronte alla verità di un fatto avvenuto nemmeno dieci anni fa. Un fatto reale, con immagini e vittime reali. Una verità che ha provocato conseguenze irreparabili e che viene raccontata in forma “progressiva”, seguendo una divisione in atti; che focalizza l’attenzione sui meccanismi osceni di un Potere che vive soltanto per se stesso e per mantenersi forte.
Nanau osserva, evitando le interazioni – quasi da sembrare invisibile – e lasciando allo spettatore la possibilità di prendere coscienza. Le riprese che indugiano sui corpi martoriati e sui volti distrutti dal dolore sono concepite per evocare la tragedia, nella consapevolezza di non poter racchiudere in un’immagine tutto quello che questo scandalo ha provocato. “Collective” è una ricerca di una verità collettiva e al tempo stesso individuale; un racconto su cui prendere coscienza come cittadini appartenenti ad una comunità e come cittadini singoli.
“Ci siamo subito resi conto dell’impatto del film sul pubblico ovunque venisse proiettato. Non importa se fossero persone più o meno ricche o di un contesto sociale più sviluppato. Tutti avevano le stesse reazioni: paura e rabbia, perché consapevoli di vivere in un mondo in cui non abbiamo il controllo delle nostre vite, dal momento in cui c’è un sistema corrotto sopra di noi che non lo permette”, ha raccontato Nanau. Ed infatti, siamo tutti consapevoli perché lo scandalo del Collectiv è un “male” ignoto e al tempo stesso fin troppo familiare. “Il mio riferimento è stato “Il caso Spotlight”: Tom McCarthy mi ha fatto vedere che si può realizzare un film sul giornalismo e farlo veramente bene. […] La cosa più importante è stata quella di far apparire le cose in maniera semplice. Le scene sono sempre state girate sul momento. […] Tutti i personaggi si sono aperti nel momento in cui hanno capito che non intendevo solo girare un film, ma vivere veramente un anno insieme a loro, condividendo le conseguenze belle e meno belle”, ha riferito ancora il regista. “Collective” pone al centro della narrazione il bisogno di informazione e rimanda ad opere come “Le mani sulla città” di Francesco Rosi o “L’asso nella manica” di Billy Wilder; un racconto che, così come non vuole far emergere eroi (né il giornalista né il Ministro della Salute, perché stanno solo svolgendo il loro lavoro), non vuole neppure utilizzare i colpevoli per scopi di vendetta.