di Mariantonietta Losanno
Sesta serata del festival: è quasi tempo di bilanci. Gli altri sei corti proiettati introducono nuovi temi; si discute – silenziosamente – sull’aborto e sulla gravidanza, si esplorano le tradizioni e le usanze dei piccoli centri rurali, si vive un’atmosfera di alienazione e per un attimo sia sta anche “fermi”, concentrati ad analizzare la condizione di staticità.
1: “WHY IS THE SKY DARK AT NIGHT”, DI KELZANG DORJEE: L’ARTE CHE SPEZZA LA REMISSIVITÀ E L’APATIA
(Bhutan, 23’)
C’è un contrasto molto forte tra natura interna e natura esterna; tra quello, cioè, che si sviluppa dentro di noi e quello che succede al di fuori. Ci sono forze interne e forze esterne, e al tempo stesso ci sono anche resistenze interne e resistenze esterne. Una giovane ragazza vive la sua routine tra la macelleria in cui lavora e il mondo che osserva dalla finestra mentre fa colazione la mattina. Due azioni semplici che si ripetono e che scandiscono le giornate di Dema, che vive in modo lento, passivo, apatico. Resta sempre inerme ed imperturbabile, qualsiasi cosa accada di fronte a lei. Un giorno un cliente in macelleria decide di non pagarla (il che non suscita in lei alcuna reazione), ma di regalarle un quadro. Da quel momento qualcosa inizia a “muoversi”; le stesse azioni che ripeteva ogni giorno subiscono dei cambiamenti, nonostante non siano radicali. Adesso accanto alla tazza che teneva ogni giorno in mano mentre si trovava di fronte la finestra c’è una piantina; in macelleria, invece, non taglia più solo meccanicamente i pezzi di carne, ma pulisce i coltelli. C’è un cambio di prospettiva. Quel suo modo (disturbante) di essere remissiva viene “spezzato” da un gesto inaspettato. Finalmente, poi, c’è anche la prima interazione. Un ragazzo si presenta alla macelleria per salutarla, facendo finta di fumare una sigaretta. Vuole dirle addio ma “interpretando un ruolo”, dimostrando come anche la finzione possa essere reale. Quel primo contatto è così duro da provocare un pianto liberatorio, uno sfogo necessario, quasi indispensabile. Si accenna ad un tema tanto delicato come l’aborto; si lascia, però, allo spettatore la facoltà di affrontarlo autonomamente, con tempi lenti.
2: “THE BAYVIEW”, DI DANIEL COOK: COME FAR SENTIRE IMPORTANTI LE PERSONE
(Regno Unito, 19’)
Ci troviamo in Scozia, all’interno di una piccola comunità per pescatori. Una donna ci racconta le dinamiche di un luogo in cui le persone faticano a sentirsi vicine. Il regista – ospite della serata – ha raccontato il lungo processo che ha portato alla realizzazione del corto; per portarlo a termine, infatti, ha studiato il posto, è stato anche ospite di quella comunità, ha conosciuto dialetti e lingue diverse. Il punto centrale del corto è il rapporto con la famiglia. Quella che si ha di origine e quella che ci si può costruire anche una volta cresciuti. Un’idea di famiglia che rimanda all’idea di cura e di attenzione e – più in generale – al riuscire a fare sentire le persone importanti. In che modo è possibile sentire quest’importanza? Dimostrando alla persona che si ha di fronte di rispettare il suo valore, provando empatia, manifestando affetto. Uno degli obiettivi che si è posto il regista – lavorando a questo progetto – è stato proprio quello di “avvicinare”; lo spettatore avverte questo senso di vicinanza e riflette sulla propria definizione personale di “famiglia”.
3: “AUGUST SKY”, DI JASMIN TENUCCI: L’IRRAZIONALITÀ NELLA PAURA E NELLA NATURA
(Brasile, 17’)
“La foresta amazzonica sta bruciando da quattordici giorni”, si sente al telegiornale, causando una perdita di vegetazione e di habitat naturali. Nel frattempo Lucia, un’infermiera incinta di San Paolo si persuade della possibilità di un pericolo imminente; viene totalmente sopraffatta dall’irrazionalità, al punto di cercare (vagando) il supporto della gente. Viene attratta da una chiesa evangelica locale e si affida a quei precetti e a quegli insegnamenti, sperando che possano prevenire possibili rischi. Quando qualcosa è irrazionale non può essere neppure discussa. In che modo si può discutere, ad esempio, di un disastro tanto grande come un incendio (che ha raggiunto 3000 km dal luogo di origine per arrivare a San Paolo) che causa danni alla biodiversità e provoca l’aumento dei gas serra? E – in modo diverso ma seguendo lo stesso ragionamento – come si può discutere una paura irrazionale? Il presupposto che permette di affrontare e superare una paura è proprio la possibilità di metterla in discussione, se questo non avviene, l’irrazionale si trasforma in insano.
4: “LA VERA STORIA DELLA PARTITA DI NASCONDINO PIÙ GRANDE DEL MONDO”, DI DAVIDE MORANDO, IRENE COTRONEO E PAOLO BONFADINI: UN GIOCO DI “RESISTENZA”
(Italia, 11’)
Nel paesino di Serravalle Langhe c’è un’usanza – risalente a più di settant’anni fa – di organizzare una partita di nascondino in cui partecipano tutti i trecento abitanti del posto. Possono giocare solo i maggiorenni, bisogna portare con sé una nocciola e vince l’ultima persona ad essere trovata: poche semplici regole di gioco in cui, chi conosce meglio il territorio, ha più probabilità di vincere. In quel tempo (il record è di tre giorni e sette ore) il paese si ferma e sono i bambini ad occuparsi delle case e a svolgere lavori al posto degli adulti. Il gioco è, in realtà, un atto di Resistenza. Ascoltando le storie dei partigiani, infatti, gli abitanti di Serravalle hanno imparato a conservare memoria; ci si nasconde per ricordare, per onorare i sacrifici che hanno permesso oggi di poter vivere e potersi nascondere solo per gioco. In questa partita di nascondino è bello anche perdere, così da essere trovati. L’unico elemento di finzione all’interno del corto è proprio quello del gioco; il resto è tutto vero: le storie, i cittadini del posto, la loro volontà di conservare le memorie. Il gioco aiuta il ricordo, come il cinema: è proprio il dualismo tra realtà e finzione a caratterizzare la storia e tutto l’universo cinematografico. Anche i registi sono stati al gioco, lasciando alle persone del posto la libertà di proporre idee per costruire il corto. Queste sono le tradizioni da ricordare: riuscire a nascondersi per gioco, oggi, è un privilegio.
5: “CHERRIES”, DI VYTAUTAS KATKUS: L’IMPORTANZA DI “RACCOGLIERE”
(Lituania, 15’)
Presentato al Festival di Cannes e Prima Italiana al “Concorto Film Festival”, “Cherries” racconta la storia di un padre che chiede al figlio di aiutarlo a raccogliere le ciliegie in giardino. Vorrebbe, in realtà, concedersi anche del tempo per ricostruire i rapporti con lui, provando a conoscerlo meglio, a creare momenti di divertimento. Provando anche ad insegnargli qualcosa. Vorrebbe quasi fermare il tempo: scorre così tanto velocemente che sembra stia “volando”. O forse resta immobile, lasciando che anche i rapporti si immobilizzino. Quando, poi, è il figlio a “riuscire a volare”, a dimostrare, cioè, di non aver più bisogno di essere “accompagnato”, il padre ripone la “scala”, quasi rassegnandosi.
6: “BIG BANG”, DI CARLOS SEGUNDO: DISTRUGGERE TUTTO QUELLO IN CUI SI “RIESCE AD ENTRARE”
(Brasile, Francia, 15’)
Chico aggiusta forni, grazie alla sua bassa statura. La sua esistenza provoca continue “esplosioni”, tanto da convincerlo di essere capace solo di distruggere. Eppure, nonostante tutte le esplosioni che causa, riesce sempre a sopravvivere. Un giorno incontra una donna in ospedale, e tra i due si instaura una complicità: entrambi sentono di essere “utili” per gli altri, come se servissero. Il resto non conta. La solitudine, l’abbandono, l’emarginazione. Forse è più giusto lasciare andare i rancori e accettare la condizione in cui ci si ritrova reagendo: attraverso una danza, ad esempio.