di Mariantonietta Losanno
Terzo giorno di Festival, con altre sei proiezioni e una partecipazione sempre più numerosa da parte del pubblico. Sono stati presentati anche gli “Industry Days” (24 e 25 agosto), a cura di Margherita Fontana e Vanessa Mangiavacca: due giorni dedicati al tema della sostenibilità nell’organizzazione dei festival e nelle produzioni cinematografiche.
I sei corti presentati si concentrano sull’identità e su come si continui a crearla costantemente. Si avverte l’urgenza di rivendicare il proprio essere, di “respirare”, di mostrarsi. Lavoriamo un’intera vita per capire chi siamo, per costruire la nostra identità e per trovare il nostro modo di stare al mondo. È giusto preservare tutto questo “lavoro”, ma non significa che non si possa mettere in discussione. Ancora una volta costantemente protesi in avanti e in evoluzione. Dopo la visione di quasi la metà dei corti in concorso, si accumulano una serie di riflessioni e domande molto diverse tra loro: passiamo in rassegna le nuove emozioni scaturite da queste altre sei opere.
1: “WILL YOU LOOK AT ME”, DI SHULI HUANG: ALLA RICERCA DI UN POSTO NEL MONDO
(Cina, 20’)
“La vita che vivi ti sembra normale?”: questa è l’incipit del corto di Shuli Huang, che racconta di un giovane regista cinese tornato nella sua città natale alla ricerca di se stesso. Si confronta con la madre, chiedendo di essere “guardato” e compreso; le spiega il suo desiderio di vivere non seguendo le “aspettative” che gli altri – lei per prima – hanno riposto in lui. Come in una sorta di diario filmato, racconta dei suoi genitori e di quello che amano (“A mio padre piace nuotare, forse nuota anche nei suoi sogni”, “Mia madre ama raccogliere i fiori per strada”), dei suoi amici e di quello che hanno realizzato una volta usciti dalla scuola in cui tutto è ancora da costruire. A queste immagini si alternano i dialoghi con la madre che, ostinatamente, ribadisce l’importanza del vivere in modo “normale”, seguendo un percorso prestabilito, non venendo meno a dei valori (non trasgredendo neppure quelli impliciti), non insultando la propria dignità. “Sono tutti a posto e normali i figli degli altri”, gli dice; “avresti una speranza ora se avessi seguito lo stesso percorso degli altri”, continua. In questo percorso di analisi e autoanalisi vengono fuori domande che non dovrebbero essere mai poste: “Ho fatto qualcosa di sbagliato per averti cresciuto così?”, oppure “Perché sei diventato così?”. Tra sensi di colpa, umiliazioni e mortificazioni, il confronto si trasforma in uno sfogo in cui entrambi – mossi da sentimenti diversi – si concedono di piangere. Lo spettatore sente, ma non vede la scena, come se dovesse restare privata, intima; o come se dovesse in qualche modo immaginarla, chiedendosi se ci sarà stato un eventuale abbraccio o un’effettiva riconciliazione.
2: “MAESTRALE”, DI NICO BONOMOLO: DALL’INFINITAMENTE INTIMO ALL’INFINITAMENTE COSMICO
(Italia, 11’)
“La vita? È qualcosa di estremamente circolare. Dove sì, esistono i desideri da esaudire. Ma alla fine non possiamo decidere tutto del nostro destino”, ha raccontato Nico Bonomolo in un’intervista in riferimento a “Maestrale”, vincitore del David di Donatello per il miglior cortometraggio. L’esistenza, quindi, si presenta come un ciclo infinito – che ricorda le opere di Escher – un circolo che si autoconclude ricominciando, una sorta di specchio che riflette lo specchio in una scala potenzialmente senza fine. Il corto d’animazione racconta – in appena dieci minuti – la storia di un uomo che, andando al lavoro, vede una barca in vendita. Decide di comprarla e di cominciare a viaggiare, di prendersi del tempo per sé per rielaborare quello che ha vissuto, per analizzare i motivi della crisi della sua relazione. O forse immagina soltanto di comprarla, di lasciarsi tutto alle spalle. Forse è fermo, non mosso dal vento. La crisi della sua relazione (rappresentata, tra le altre immagini, in quella in cui si dorme uno di schiena all’altro), il lavoro, la routine, la noia, il matrimonio: questo ciclo si conclude riportandolo al punto di partenza. Come se potesse – di nuovo – scegliere se acquistare quella barca, se iniziare a viaggiare, se ricostruire se stesso e la sua relazione. Forse è proprio questo ciclo continuo che riporta ad un punto di partenza a segnare ogni volta un inizio diverso, e forse sognare è un atto di resistenza.
3: “#31# (UNKNOWN CALL)”, DI GHYZLÈNE BOUKAÏLA: IL CONTRASTO DI DUE VOCI
(Algeria, 17’)
In un mondo totalmente distrutto una voce di cui non si conosce la provenienza fornisce delle indicazioni. Sembra tutto fermo e inconsistente; non si sentono né vedono persone, come se questo mondo neppure esistesse. Improvvisamente, poi, tra l’annientamento e la rassegnazione emerge una nuova voce. Non è solo una voce, ma una canzone, che traccia una strada possibile in questa realtà statica. Due voci in contrasto tra loro: una che segna una “fine” e un’altra che segna un “inizio”. Senza punti di riferimento possibili, ci si muove all’interno di questo mondo fatiscente aggrappandosi a quella musica che stride con il contesto circostante. È l’unico modo per non perdersi nella distruzione.
4: “AIRHOSTESS-737”, DI THANASIS NEOFOTISTOS: IL CONCETTO DELL’“ARIA” E LE SUE POSSIBILI ACCEZIONI
(Grecia, 16’)
Una hostess sta trasportando il corpo della madre per seppellirlo accanto a quello della nonna. Il suo unico pensiero sembra, però, legato al suo apparecchio per i denti. Un bambino le fa notare – deridendola in modo non intenzionale – una macchia di rossetto e in quel momento inizia a mancarle l’“aria”. Tenta di aggiustarsi, si controlla continuamente allo specchio, chiede alla collega se è a posto. Tutto ruota intorno al concetto di aria: quella che opprime e quella che fa vivere. In un momento in cui ci si sente oppressi da qualcosa sembra non si riesca neppure a respirare e, al tempo stesso, però, si dice che quando finalmente si sta “bene” si comincia a “respirare”. È tangibile il modo in cui la hostess adegui il suo respiro alla situazione in cui vive; quel riferimento a quel piccolo difetto le fa completamente perdere la calma, come se fino ad allora non si fosse resa conto di cosa stesse facendo. È quell’apparecchio (legato ai suoi ricordi) che fa sì che il suo respiro cambi. Persino nel momento di turbolenza il “problema” resta l’apparecchio. Solo alla fine di questo viaggio estenuante può accettare che le vengano fatte le condoglianze: finalmente può realizzare e può tornare a respirare.
5: “ON XERXES’ THRONE”, DI EVI KALAGIROPOULOU: TOCCARSI PER SENTIRSI VICINI
(Grecia, 16’)
In una realtà distopica vige il divieto di toccarsi sul lavoro. Tutto viene represso: gli impulsi, i sentimenti, i gesti di affetto o quello di aiuto. Un lavoro alienante aggravato dall’impossibilità di “sentire” gli altri, toccandoli. “Infrangere le regole spaventa più che seguirle”: quel divieto di avvicinarsi agli altri fa così paura da non causare alcun tentativo di ribellione. Fino a quando, ci si avvicina per necessità, come se si fosse arrivati ad un limite. E quell’avvicinarsi racchiude in sé il desiderio di sessualità, di affetto, di condivisione. Tutti sentimenti repressi che – proprio perché sono stati frenati – emergono con (ancora) più forza. Come se non si potessero più fermare. Le regole vengono improvvisamente dimenticate, così come ci si dimentica di dove ci si trova. Conta solo sentirsi vicino.
6: “BURIAL OF LIFE AS A YOUNG GIRL”, DI MAÏTÉ SONNET: CHE FORMA HA L’INFELICITÀ?
(Francia, 33’)
L’addio al nubilato della sorella arriva nel momento meno adatto per Axelle, che sta cercando di superare la fine della sua relazione. Non può non andarci, ma si sente a disagio sin dai primi momenti in cui è insieme alla sorella e alle altre amiche. Tra le invitate c’è anche Margherite, l’unica con cui sembra possibile avere un confronto sincero. In quella che doveva presentarsi come una fuga all’insegna dello svago e del divertimento, l’unica protagonista è solo l’infelicità. Quella di Axelle che sta provando ad andare avanti, quella delle altre invitate che fingono di non essere infelici per paura di risultare “pesanti” e rovinare quel clima di festa che prevede (quasi) l’obbligo di divertirsi. Per ognuna di loro la felicità ha una forma diversa: c’è chi la identifica nella solitudine, chi nel tradimento, chi nel lasciarsi e chi nel restare insieme nonostante non ci sia più amore. Quello che realmente riesce ad unirle è la condivisione di quella idea – che ha più accezioni, a seconda di come la intendono – di infelicità. Parlandone e esternandola si può riuscire anche a ricominciare a credere all’amore.