di Mariantonietta Losanno
“Aiutami a morire”: questo è l’incipit dell’opera dei fratelli Taviani – Orso d’Oro a Berlino nel 2012 – di forte realismo cinematografico a metà tra il dramma e il documentario. Che succede quando l’arte entra in carcere? Quando si scontra con la violenza, la rassegnazione, la paura?
Il sociologo Erving Goffman ha condotto un’analisi delle istituzioni totali nella sua opera “Asylums”, in cui ha descritto i meccanismi che vengono messi in atto da quelle istituzioni che agiscono con un potere inglobante sugli individui e ne delineano i “ruoli”, facendo in modo che chi viene internato aderisca ad uno “stigma”. Lo stesso sociologo, “riportando in scena” il concetto di “ruolo sociale” ha calato l’analisi del comportamento umano in un contesto teatrale; per analogia con il teatro, infatti, l’approccio è stato definito “drammaturgico”, ma non vuole realmente definire il mondo sociale come un “palcoscenico”, quanto piuttosto soffermarsi sui comportamenti che vengono messi in atto quando si “recita” e quando invece ci si “toglie la maschera”. In “Cesare deve morire” la comunicazione è sempre e solo teatrale. I protagonisti di questo docufilm, però, ci “mettono la faccia” è anche la loro fedina penale (sovrascritta sullo schermo): non c’è niente, quindi, di “finto” o “costruito”. È tutto reale. La loro condizione, i loro reati, le loro testimonianze. L’unico momento in cui recitano un copione è solo quando escono dal personaggio per tornare ad impersonificare se stessi. Attraverso la recitazione riescono a dire molto di più: nel testo di Shakespeare che devono studiare, infatti, si parla di amicizia e tradimento, di potere e verità, di parricidio e congiura.
“Cesare deve morire” si presenta come un film vero e proprio, non come un’indagine (che può diventare morbosa in alcuni casi) sulle condizioni di detenzione in Italia. Non ci si sofferma con una curiosità (altrettanto morbosa) sui reati che hanno commesso, sul loro passato o sulle loro colpe. L’attenzione viene posta su un altro piano, quello creativo.
“Da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione”, confessa Cosimo Rega di fronte alla macchina da presa. Probabilmente, se non fosse stata conosciuta quel contesto non avrebbe avuto la stessa connotazione. È un cinema “libero” quello dei fratelli Taviani (il cui ultimo film insieme, prima della morte di Vittorio, è stato “Una questione privata”), che “respira” anche in un carcere. Che non si perde in – banali – elucubrazioni sulle dinamiche carcerarie, che sarebbero risultate banali non per il loro significato quanto per la loro poca “concretezza”; che intreccia il teatro alle vicende personali dei protagonisti. Che riacquisisce i “colori” solo quando lo spettacolo finisce, come a voler dire che solo quando ci si lascia pervadere dall’arte, quando si recita ed tutto è in “bianco e nero”, c’è realtà.