“MA VIE DE COURGETTE”: LA SEMPLICITÀ (MA NON LA SEMPLIFICAZIONE) DELLE COSE COMPLESSE

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di Mariantonietta Losanno 

C’è un modo semplice per raccontare la complessità. Ne esiste – persino – uno per portare in scena la violenza e gli abusi (sui minori) trovando naturalmente un equilibrio tra commozione ed esasperazione. 

“Zucchina” (il cui vero nome è Icaro) è un bambino solitario che passa gran parte del suo tempo a disegnare nella sua soffitta. Il padre se n’è andato non si sa quando né perché; la madre ha una scorta inesauribile di birra e passa le sue giornate bevendo e guardando la televisione. Zucchina raccoglie le lattine, le conserva, le usa persino per giocare. Un giorno si ritrova – forse per “colpa” (?) – orfano, e viene portato in un istituto, in cui conosce altri bambini che sono stati strappati (come lui) da famiglie disfunzionali, da drammi, da pericoli. Quando arriva Camille, poi, si apre anche la possibilità di tornare a sperare. 

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Diretta da Claude Barras e scritta da Céline Sciamma, “Ma vie de Courgette” (film in stop motion tratto da “Autobiographie d’une courgette” di Gilles Paris) è la dimostrazione di come si possano sdoganare temi delicati senza dover mai scivolare nella retorica. È attraverso una sensibilità e una controllata precisione del racconto che si può arrivare a rendere più “semplice” persino il dolore. Diventa più semplice parlarne, non superarlo; ma l’ironia e la dolcezza consentono di affrontarlo senza doverlo necessariamente considerare un “nemico”. Quello che lega Zucchina agli altri bambini è proprio la sofferenza condivisa; ognuno, a modo suo, cerca di “darsi un tono”, di mostrarsi forte. Ma non fingono di non avere paura. Ogni personaggio viene caratterizzato in modo semplice e delicato; ogni “piccola” vita viene raccontata senza filtri, senza bisogno di sorvolare su situazioni scabrose come abusi in famiglia, dubbi sessuali, violenze. 

“Ma vie de Courgette” è un’opera “magica”, che non si nasconde dietro facili ipocrisie e non rifiuta la sofferenza. Anzi, la racconta non trascurandone i dettagli più duri. Zucchina conserva una delle lattine di birra di sua madre perché è tutto quello che ha di lei; va oltre il significato dell’oggetto cercando di “raccogliere” dei ricordi, nonostante siano dolorosi. Vuole ricordare, non rimuovere. 

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Raccontare il dolore con semplicità non significa semplificarlo. La pellicola non vuole consolare, ma infrangere alcune “regole” per portare in scena delle dinamiche tanto complesse. Regole che riguardano, ad esempio, i bambini che non dovrebbero parlare (ma prima ancora, secondo alcuni, conoscere) la violenza, o che maneggiano lattine di birra e addirittura le conservano perché è tutto quello che hanno per ricordare. “Sono un grande ammiratore di Tim Burton e l’estetica delle mie “zucchine” deve molto a lui e al suo cinema. […] A livello contenutistico i miei punti di riferimento sono Ken Loach e i fratelli Dardenne”, ha raccontato Claude Barras, che ha saputo mettersi “all’altezza” di un bambino e lo ha fatto mantenendone lo sguardo, ma mostrando anche una forte maturità. 

Non ci deve essere per forza una rassicurazione. Ci sono temi che colpiscono, racconti che turbano, dinamiche complesse a cui non si trova una spiegazione. Esiste, però, anche la possibilità di condividere, di esorcizzare, di affrontare senza distruggere chi racconta e chi ascolta.