“PARANOID PARK”: GUS VAN SANT CI (RI)PORTA IN UN UNIVERSO DI APATIA “IN MOVIMENTO”

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di Mariantonietta Losanno 

La voce narrante del film (Alex) ci informa sin da subito che il racconto – sviluppato sotto forma di diario-confessione – avverrà in modo confuso, così come si presenta nella sua mente. A differenza del romanzo di Blake Nelson, infatti, Gus Van Sant mette in scena la storia senza mantenere continuità; le vicende legate allo skateboard, la grafia e il racconto di sé e le dinamiche adolescenziali si alternano in una realtà in continuo movimento. Dietro la facciata dell’apatia, infatti, si nasconde una profondità da analizzare. 

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Il protagonista della storia è Alex, un ragazzo di sedici anni che cerca di conoscersi, e nel tentativo di farlo finisce a Paranoid Park, un parco per appassionati di skateboard di Portland che sembra una sorta di paradiso artificiale. Una sera, accidentalmente, causa la morte di un agente di polizia e decide di non parlarne a nessuno. 

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Che cosa rappresenta realmente Paranoid Park? Gus Van Sant mette in scena un “luogo della mente”, uno spazio a sé stante distaccato dalla realtà e in cui vigono regole ed energie diverse. Un luogo sospeso. Persino l’incontro con la morte acquista un’accezione diversa a Paranoid Park. Lo sguardo alterato di Van Sant condensa l’atmosfera alienante e la perdizione degli adolescenti in uno spazio in cui, proprio per la sua essenza, è possibile indagare anche quelle emozioni da cui si vorrebbe fuggire. Alex fugge, ma è Paranoid Park a “rincorrerlo”, a riportarlo nella (sua) realtà. Ad offrirgli un’opportunità per comunicare con se stesso, prima di permettergli di redimersi. Quello di Gus Van Sant, infatti, non è un cinema alla ricerca di redenzione; è un cinema “dannato”, ripetitivo, senza approdo o lieto fine. Un cinema composto da frammenti da ricostruire, che dissimula, ma non fugge. Non scappa di fronte alla sofferenza o alla solitudine; indaga e va a fondo, decidendo di non ignorare quell’“elefante nella stanza”. Un cinema di “realismo” – concetto cardine degli studi di André Bazin – che mantiene una cifra autoriale immediatamente riconoscibile e che continua ad approfondire, attraverso linguaggi e modalità diverse, temi, figure e ossessioni. 

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Gli adolescenti popolano le pellicole di Gus Van Sant sin dal suo esordio con “Mala noche”; l’attenzione è focalizzata sulla difficoltà di trovare un luogo di appartenenza, di vivere in un’apatia “pericolosa” (perché è in “movimento” e causa altro “movimento”, non è statica), di non sapere sostenere le proprie ferite, il proprio inconscio e i propri demoni. Un regista, allora, che potremmo definire “scomodo”, per certi versi. Un tipo di cinema che, per la scelta di mettere in scena viaggi attraverso spazi sterminati in una dimensione senza tempo, ricorda il linguaggio visivo di estrema purezza di Abbas Kiarostami o di Béla Tarr. 

Gus Van Sant “manipola” il romanzo di Nelson per sviluppare una storia “soffocante” ma “libera”, per realizzare un film ispirato, “paranoico”, lucido. 

In “Paranoid Park” un’importanza particolare riveste, poi, la musica; quella di Elliott Smith “tangibile” e quella dei Radiohead (“Paranoid Android”) “evocata”.