“THIS MUCH I KNOW TO BE TRUE”: LA RICONCILIAZIONE CON LA (MUSICA DELLA) VITA E L’ACCETTAZIONE DEL CAOS

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di Mariantonietta Losanno 

“Dietro a tutto questo, la musica, le parole, il dolore, la tenerezza, la vergogna, la colpa e la felicità, tu chi sei?”: una domanda a cui Nick Cave approccia in un modo “nuovo”, prendendosi del tempo, dopo aver imparato che, quando si risponde subito, non si crea facilmente un rapporto di empatia. Perché agire di impulso significa non rispondere con la parte migliore della propria natura. E per questo genere di domande il tempo è necessario. 

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Nick Cave accetta il nuovo “ritmo” della sua vita. Fa pace con il caos, convivendoci; indaga la sofferenza facendo in modo che non diventi assoluta; si interroga sulla sua persona, provando a darsi una definizione.

Ne “Il cielo sopra Berlino”, c’era “solo” il Nick Cave musicista e cantautore. C’era la sua musica oscura e commovente, e c’era una costruzione temporale di Win Wenders in cui si “abbracciava” il passato, il presente e il futuro di una città così complessa come Berlino. Il motivo per cui, il regista di “Paris, Texas”, lo volle così fortemente era legato proprio alla capacità della sua musica di scuotere nel profondo le anime condannate all’imperfezione. Non è un caso, allora, che nel prologo di “This Much I Know to Be True” Nick Cave ci mostri una specie di laboratorio/bottega in cui ha realizzato le sue ceramiche – una sorta di “Storia del Diavolo in diciotto statuette” – e che sono più “vicine” ad anime imperfette, come la sua. “Il Diavolo si è separato dal mondo a causa dei suoi peccati”, spiega: “la vita va avanti e lui contempla il mondo, restando solo e separato da tutto il resto”

Andrew Dominik indaga i rapporti professionali e privati di Nick Cave e Warren Ellis, spiegando come, proprio dal loro sodalizio, siano riusciti a mettere in musica delle visioni. Come siano riusciti, poi, a rendere i concerti delle esperienze di “estasi collettiva”. Dominik regala al pubblico la possibilità di assistere ad un concerto “privato”, potendosi, così, godere uno spettacolo intimo, contrario alla natura stessa del concerto che normalmente si vive insieme ad altri e non “separati”. Le canzoni parlano di disperazione e di speranza, “ipnotizzando” il pubblico: “Ghosteen” è la ricerca di una pace interiore e di un futuro dopo un lutto, “Carnage” è il primo frutto di un’intesa istintiva, ma in senso “surrealista”. Due album diversi, in cui è essenziale l’analisi dei testi, non tanto per cercare di cogliere un filo conduttore logico-narrativo, ma per lasciarsi andare alle loro tante e sorprendenti suggestioni. 

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È soprattutto l’immaginazione di chi ascolta a stabilire se i versi si riferiscono ad una visione salvifica o apocalittica. Consolazione o rassegnazione? Una domanda complessa come quelle poste a Nick, per cui bisogna prendersi del tempo per riflettere. Una cosa è certa: attraversando questa musica entriamo in una specie di “strano stato di trance”, in cui non si ha idea di cosa stia succedendo. Ed è allora che scatta qualcosa, di trascendente, di onirico, di immaginario. E, per tornare alla complessità di domande a cui non si riesce a rispondere, forse è proprio la saggezza ridimensionante che offre la musica ad aiutare. Nick Cave ci spiega il suo approccio a quesiti esistenziali di questa natura: “Ho paura di abbandonare la mia rabbia. E se senza non sapessi più chi sono?”, oppure, “Come si fa ad accettare di non aver nessun controllo sulla propria vita?” 

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Nick Cave prende atto del cambiamento che ha subito la sua vita, accettando il nuovo “ritmo”. Accettando, cioè, il fatto che “il velo che separa una vita ordinaria dal caos è pressoché inesistente. Questa è la comune verità dell’esistenza a cui nessuno può sottrarsi”. Il fatto di non avere controllo, però, non ci rende impotenti: siamo sempre liberi di scegliere come reagire a quello che ci offre la vita. Ci si può arrendere e lasciarsi sopraffare dalla corrente, o si può cogliere l’opportunità che ci viene offerta: quella del cambiamento e del rinnovamento. Sta a noi andare incontro alla migliore alternativa che la vita offre: questo è il più grande atto di insubordinazione di fronte alle disgrazie della vita. In questo modo, anche la Felicità assume un significato diverso: si trasforma nella consapevolezza che le cose abbiano un senso, indipendentemente dal lavoro, dai rapporti, dai sentimenti. Dopo questa analisi – e dopo essersi presi del tempo – la risposta alla prima domanda può avere concretezza: un tempo Nick Cave si sarebbe descritto solo come un musicista, oggi sceglie di allontanarsi dalla definizione che dà il lavoro, per vedersi come una “persona”. Come un padre, un marito, uno che fa musica e scrive delle cose e non viceversa. Siamo noi stessi a definirci, non le “cose” che facciamo; non sono la rabbia, il rancore o la disperazione; non è il vuoto, la fragilità, la solitudine. 

Quella di Andrew Dominik è una messa in scena che si allontana profondamente dal “genere” (se vogliamo pensare, ad esempio, a “Last Days” di Gus Van Sant o a “Control” di Anton Corbijin): “This Much I Know to Be True” è un viaggio complesso e intimo in tutte quelle cose che sembrano “intatte” ma che, in realtà, sono state distrutte. Anche la musica è stata “distrutta”, perché il dolore ha impedito che venisse creata. Ma poi la sofferenza ha lasciato il posto all’estasi, alla rinascita.