di Mariantonietta Losanno
“Il mio grande sogno è di essere l’unica giacca al mondo, vorrei che potessimo camminare per strada senza mai vedere altre giacche”: il protagonista di questa bizzarra – e violenta – storia è George, un uomo che fugge dalla sua vita per raggiungere una località isolata di un paesino montano e comprare una giacca di cervo. Una volta arrivato lì si finge regista e si prefigge un unico e solo obiettivo: fare in modo che la sua giacca diventi l’unica al mondo e, di conseguenza, che lui sia l’unico proprietario a possederla.
Si potrebbe dire che Quentin Dupieux abbia un’ossessione – per restare in tema – per le ossessioni. Lo ha confermato anche nella sua ultima opera, presentata nella sezione Special Gala della Berlinale 2022, “Incroyable mais vrai”, un titolo che sintetizza a pieno la sua idea di cinema. Così come in “Doppia pelle”, una storia reale si incastra con una bizzarra e surreale dando vita ad una realtà molto più coerente di quanto ci si potrebbe aspettare. Per George l’ossessione è l’affermazione della propria identità, per la coppia di coniugi in “Incroyable mais vrai” è la giovinezza. Una volta sancita l’ossessione “principale” (una giacca per il primo film e una “botola magica” per l’altro), Dupieux percorre strade secondarie, scomponendo quella mania in tante piccole altre. Dal “feticismo” per la giacca, ad esempio, scaturiscono altre ossessioni “subordinate”. George cerca una definizione di sé e si impone di trovarla diventando “unico” in qualcosa; non “lotta”, però, per ottenere questo primato e per essere, quindi, l’unico ad indossare una giacca, piuttosto si impegna a dissuadere chiunque altro voglia indossarne una. Dalla sua difficoltà di definirsi scaturisce anche quella di accettare che gli altri si definiscano: il suo sentirsi inadeguato lo porta ad incattivirsi verso chiunque. Ossessionato dal bisogno di trovare il proprio “corpo” – e la propria “pelle” – George rifiuta chiunque ostacoli il suo piano. Sente la necessità di “mettersi a fuoco” e solo grazie alla sua giacca sente di poterlo fare. Quindi, la sua ossessione ha come conseguenza lo scatenarsi di altre piccole (?) follie: la non-accettazione dell’altro, la rabbia, la violenza, la vigliaccheria.
Un cinema tanto riconoscibile quanto ossessionato, quello di Quentin Dupieux. E ancora, un cinema che fa dell’“arbitrarietà” il suo marchio di fabbrica. Che sceglie di mettere in scena in modo arbitrario le arbitrarietà della vita, e che “gioca” con lo spettatore portando la narrazione ad un livello surreale/ironico che confonde ma che poi trova una sua precisa definizione. E non è un caso che un regista così “definito” parli della difficoltà altrui di trovare definizione. La forte identità di Dupieux gli consente di indagare le identità “deboli”, ancora sfocate, dai contorni non nitidi.
Niente appare serio, eppure è tutto così grave: il regista mette in scena – attraverso metafore illuminanti – le follie e i deliri di persone comuni. Dupieux conferma la sua anti convenzionalità e ridefinisce i confini del suo stile: surreale, ironico, bizzarro.