di Mariantonietta Losanno
Nell’universo dell’intrattenimento la paura ha assunto diverse forme: il genere horror ha subito molte evoluzioni cinematografiche (passando da una linea gotica ispirata alla letteratura di genere – intorno agli anni ‘30 – a prodotti dai contorni sempre più specifici) fino ad arrivare ad essere connotato come “fenomeno internet”. Oggi la paura è “intermediale”: la nuova sorgente del terrore è il web, incessante e iperproduttivo, che “sforna” contenuti horror ogni giorno. Il cinema ha subito – forse in questo genere maggiormente – l’influenza del mondo virtuale: costruire un horror che sia fonte di paura, adrenalina e tensione, che sia qualcosa di non visto e che sappia dosare il tempo, la componente psicologica e – soprattutto – la sensazione di irrequietezza nel dover stare almeno novanta minuti di fronte ad uno schermo, è complesso. Perché l’horror deve fare sempre “più” paura, ed agire sull’emotività e sull’irrazionalità dello spettatore di oggi è un lavoro complesso.
“Midsommar” funziona – proprio – perché non si tratta di un horror, anzi, di un anti-horror. Siamo in pieno giorno per tutta la durata del film. Ci sono colori tenui che “accendono” sensazioni di positività e hanno un effetto (persino) calmante; non ci sono – apparentemente – “mostri” o oggetti del terrore e (è questo l’aspetto più importante) quello che tiene in piedi la narrazione è la componente sentimentale. Si tratta, cioè, di una storia d’amore. È paradossale, eppure è così: il fulcro della vicenda è il legame tra Dani e Christian, in totale disequilibrio perché si nutre di compassione e obblighi, non di amore. Lui vorrebbe rompere con lei, ma non sa come dirglielo. Anzi, quando lei perde la sua famiglia, lui si sente in dovere di restarle vicino, e il rapporto diventa – per lei – un appiglio per non soccombere, e – per lui – un modo per “salvare” la propria coscienza. Christian si sente obbligato ad invitarla anche al viaggio organizzato dagli amici in un strano villaggio svedese per effettuare studi antropologici e, al tempo stesso, svagarsi nel festival che celebra il solstizio d’estate.
La pellicola viola tutti i canoni del genere per costruire tensione nel modo apposto. Ari Aster osa scegliendo di mettere in scena una storia prevedibile e che sa stare in equilibrio tra il non dire nulla e l’essere piena di significati. C’è qualcosa che sfugge, e al tempo stesso è tutto chiaro. C’è il classico gruppo di amici che sta per imbarcarsi in quella che sin dai primi istanti si preannuncia una tragedia, e c’è il pericolo – rappresentato da una “setta” – che ingloba e da cui non si potrà fuggire; però c’è anche una surreale elaborazione di un lutto e un senso di claustrofobia che ricorda “Madre!”, “Funny Games”, “Scappa – Get Out”, “Melancholia” e ancora, “Il sacrificio del cervo sacro”, “Suspiria” – purtroppo nella versione di Guadagnino – ma anche “Il verde prato dell’amore” per la componente di terrore immersa in distensivi “prati fioriti”.
L’oscurità “risplende” in “Midsommar”. Il secondo lungometraggio di Ari Aster si distingue per la capacità di disinteressarsi delle regole e per essere luminoso, alienante, sfiancante. Dà alla paura un senso di ordinarietà e, quindi, per evitare di ossessionarsi dal “dover per forza spaventare” non se ne preoccupa affatto. Ed è per questo che funziona.