“KINETTA”: LE FORME DEL DEFORME NEL CINEMA “IRRISOLTO” DI LANTHIMOS

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di Mariantonietta Losanno 

Un cinema fatto di silenzi, quello di Yorgos Lanthimos; insidioso, criptico, irrisolto. Lo stile grottesco, distaccato e crudo, la potenza espressiva – decisamente superiore in lingua originale – e la capacità di scatenare un “moto” di ricerca interiore contraddistinguono la poetica di un personaggio che abbraccia un’idea di cinema spiegata, violenta, potente.

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La sinossi del film – qualora ce ne fosse realmente una – “racconterebbe” di un’indagine condotta da un poliziotto, un fotografo e una cameriera d’albergo. Vengono simulate tutte le pose che hanno portato alla scena di un delitto, per cercare di risolverlo. Nel riprodurre le dinamiche si entra così a fondo nella violenza dell’evento da perdere di vista la realtà; la volontà di ricostruire con “precisione” le circostanze coinvolge i personaggi – così come gli spettatori – tanto da renderli protagonisti diretti di quella crudeltà. L’esordio alla regia di Lanthimos chiarisce i suoi intenti e sintetizza la sua filmografia; provoca, rendendo volutamente le sue opere non fruibili, compromette, obbligando lo spettatore ad analizzarsi, e traumatizza, mostrando un puro e insensato sadismo. “Kinetta” (che è il nome di una località balneare nei pressi dell’istmo di Corinto, ma è anche quello di una macchina da presa), è la rappresentazione di un’ossessione morbosa e profondamente masochista. Lanthimos distrugge qualsiasi forma di comunicazione, concentrandosi solo sulla perversione, sulla follia e sull’inquietudine. 

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I movimenti nevrotici di macchina si adattano perfettamente ad una narrazione che ripete meccanicamente stupri, violenze, omicidi e che, nel reiterare le azioni – anche se con l’intento di comprenderle – sprofonda nell’emulazione e nel “vuoto”. I personaggi scompariranno con il primo flusso estivo di turisti; non conosceremo mai i loro nomi e i loro stati d’animo: tutto svanisce senza dare il tempo di mettere a fuoco gli eventi. Lo spettatore, non “accompagnato” dallo sguardo del regista che “egoisticamente” si gode il “proprio spettacolo”, non può far altro che cercare dentro di sé delle risposte; non riuscendo a comprendere il linguaggio dei personaggi, non riesce ad aggrapparsi alle “parole” lasciandosi, così, invadere dalle immagini di violenza. È complesso fornire delle “coordinate” di letture che non riportino allo stesso Lanthimos; l’aderenza psicofisica ad una singolare forma di perversione che il regista mette in scena non può collegata ad altri che a lui. Le sue sono “antistorie”, in cui non si riescono ad azzardare ipotesi di interpretazione. 

“Kinetta” è una prefazione di tutto quello che verrà dopo. Contiene al suo interno tutti i temi, i personaggi, le idee che verranno riprese e approfondite nelle narrazioni successive. Ci sono l’incomunicabilità – che ricorda la “noia antonioniana” – l’inadeguatezza dei personaggi, l’irriconoscibilità dei luoghi, il tempo non scandito, i suoni irritanti. Lanthimos “sconvolge il cinema” con la forza della sua inquietudine. È una riflessione sul “fare cinema”, un’ipnosi, un’ossessione.