di Mariantonietta Losanno
Noah Baumbach adotta il maggiore mimetismo possibile alla vita reale. Indaga, sviscera, “si serve” dei suoi personaggi per scavare anche dentro se stesso. Normalizza i sentimenti e “omaggia” i fallimenti; enfatizza i vuoti – nonostante prediliga quasi sempre spazi pieni, affollati, urbani – e le distanze tra le persone: consacra (con ironia) la difficoltà di accettarsi e di realizzarsi.
Frances ha ventisette anni ed è una ballerina. O meglio, sogna di diventarlo, perché il mondo della danza la rifiuta costantemente. L’altro (apparente) punto di riferimento è la sua migliore amica, Sophie, con cui ha un legame intimo e tenero, ma al tempo stesso di dipendenza e morbosità. Un rapporto che si nutre di sensi di colpa, umiliazioni, richieste di affetto, rifiuti. Quando il suo ragazzo le chiede di andare a vivere insieme Frances rifiuta, ma quando è Sophie ad “abbandonarla” per trasferirsi dal suo fidanzato, è costretta a fare un bilancio della sua vita: considerare le persone che la circondando, riflettere sulle scelte lavorative, costruirsi un’autonomia. Il punto però, è che i risultati di questa valutazione sono troppo difficili da concepire per una donna ancora in cerca di se stessa. Accettare, cioè, di non avere altre amicizie al di fuori di un unico e solo legame (peraltro tossico), e di non essere riuscita a costruirsi una professione nonostante fosse stata individuata una strada ed una passione, è troppo doloroso. Allora Frances nega la realtà, costruendosi un mondo tutto suo in cui riesce (ancora) ad essere se stessa.
Baumbach ritrae una donna che deve fare i conti con aspettative smisurate e una totale mancanza di mezzi; una donna che sa quello che vuole, ma semplicemente non riesce ad ottenerlo. Nonostante questo, non smette di guardare il mondo con gioia, provando a sopperire alle sue mancanze. Vorrebbe avere più talento per poter entrare in una compagnia di danza, vorrebbe impedire alla sua migliore amica di innamorarsi, vorrebbe ricoprire un ruolo attivo e non assistere inerme al suo destino. Viene spontaneo, allora, domandarsi come si può reagire quando ci si rende realmente conto della mancanza di mezzi per ottenere quello che si vuole. Mezzi materiali (i soldi o una casa) e qualità personali: due elementi essenziali per il raggiungimento di un obiettivo. Una reazione (legittima ma rassegnata) potrebbe essere quella di smettere di credere in quell’“idea” e accettare in modo arrendevole una condizione sostanzialmente irreversibile. Un’altra potrebbe essere quella di spostare l’attenzione da quel progetto – accettando i limiti personali e materiali – per investire su altro; per impiegare, cioè, le energie su altro, per scoprire cos’altro può gratificare. “Amo la vita che non ho mai avuto”, dice Frances. Per diventare una “persona vera”, però, bisogna vivere la vita che si ha, accettando che non per forza tutto quello a cui si aspira può concretizzarsi.
Il solo titolo esprime il bisogno di “completarsi”: quando Frances trova finalmente casa e appone il suo nome al citofono, il cognome resta a metà non entrando completamente nel riquadro. C’è, probabilmente, una parte che manca in tanti di noi, che può essere una persona che ci ha lasciati, una speranza tradita, un sentimento non ricambiato. Chi dice che una parte mancante crea una persona a metà? In fondo quella parte “c’è”, perché si ha consapevolezza di quello che manca, nonostante non ci sia realmente.
Tutti ci siamo sentiti “a metà”, abbiamo provato la sensazione di non avere il controllo su di noi e sui nostri fallimenti. Frances – versione adulta di “Lady Bird” – è “costretta” ad accettare, alla fine, che non sempre le cose hanno un senso nella vita: è necessario anche improvvisare goffamente.