“LES PLAGES D’AGNÈS”: GOVERNARE IL TEMPO E ABITARE IL CINEMA

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di Mariantonietta Losanno 

Agnès Varda cattura la vita, la (re)interpreta, ci scherza. La racconta ponendosi come protagonista e spettatrice; la ripercorre rievocando frammenti di vita vissuta e immaginata, “specchiandosi” in più immagini di sé influenzate dal tempo, dalle circostanze, dalle persone. “Les plages d’Agnès” è un coloratissimo autoritratto, un’opera di immagini, estratti di film, reportage fotografici, in cui tutto sembra moltiplicarsi, ripetersi, trasformarsi. “Se aprissimo la gente, troveremmo dei paesaggi, se aprissimo me troveremmo delle spiagge”, racconta Agnès, che si è “attribuita” questo nome a diciotto anni cambiando quello di nascita, Arlette. Una delle sue prime rivoluzioni. Il mare “accompagna” il racconto con i suoi colori e i suoi rumori e “ferma” il tempo, che “è passato e passa, tranne che sulle spiagge, che sono senza tempo”.

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Che bellissima onda la nouvelle Vague, racconta Agnès, citando Truffaut, Godard, Resnais, Chabrol, Rivette, e il suo Demy. Il cinema, però, è venuto dopo; prima c’è stata la fotografia: ci sono state le immagini, alcune “sfocate”, che se inizialmente credeva fossero l’espressione di un fallimento (perché era legata all’idea che le foto dovessero essere nitide), dopo si sono rivelate un mezzo per “esercitare la memoria”. Qualcosa che non è nitido e non è messo a fuoco si lega anche ad un’idea di frammentazione che corrisponde alla questione della memoria. Il bisogno di associare le parole alle immagini sancisce il passaggio dalla fotografia alla cinematografia; non c’era alle spalle un background da cinefila, c’era solo immaginazione, fascino, istinto. Ed è così che poi il cinema è diventato un luogo in cui abitare, in cui – anzi – ad Agnès sembra di aver sempre abitato. Più che un approdo al cinema, si potrebbe definire – paradossalmente – un ritorno. Osservando nel passato – o camminando all’indietro per esplorare i propri ricordi come piace fare alla Varda – si può notare come il cinema abbia sempre (in qualche modo) fatto parte di lei. Il desiderio di filmare le persone perché “l’hanno sempre intrigata, motivata, interpellata, sconcertata”; la necessità di soffermarsi sul Tempo e governarlo e la ricerca costante di poesia, verità, emozione, hanno sempre fatto parte di lei. Il cinema, allora, c’è sempre stato. 

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Nel suo “auto documentario” Agnès ripercorre anche il suo cinema, attraverso dei piccoli estratti. Ricorda, allora, “Cleo dalle 5 alle 7”, un film capace di combinare il tempo oggettivo come quello dell’orologio e il tempo soggettivo, come quello che sperimenta la protagonista durante il film; “Il verde prato dell’amore”, un’opera “calma ed inquieta” – sintesi del suo modo di fare cinema – che racconta una felicità “speciale” nei paesaggi delicati dell’Île-de-France che ispirarono gli impressionisti. Cita “La vita è un raccolto” e chiarisce il suo modo di proteggersi dal “vuoto”: raccogliendo le cose che passano, ridando loro il valore che hanno perduto o che non hanno mai acquisito; “Mur murs” che si sofferma sulla capacità dei murales di raccontare la storia di una città e della sua gente, e sulla loro natura effimera che è parte della loro bellezza. E poi si concede di ricordare il documentario che ha diretto su Jacques, “Garage Demy”, parlando di quello che li ha tenuti legati una vita e la malattia che li ha separati di cui – per una sorta di silenzio affettuoso – non parlava con lui. Le riprese finirono il 17 ottobre e Jacques morì il 27: Agnès ha “trattenuto” le sue immagini fino a quando ha potuto, si è aggrappata a quello che “restava” di lui, per non rinunciare totalmente al loro progetto di invecchiare in due. 

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Oltre la fotografia, il cinema, i sentimenti, la famiglia (intesa come concetto “compatto”), ci sono state, poi, le lotte femministe, e i suoi viaggi/reportage a Cuba, in Cina e negli Stati Uniti. 

Quella di Agnès Varda è una vita piena di leggerezza, passione, curiosità, autoironia; espressione di un cinema che “si fa reale” e di una realtà che imita dannatamente il cinema. Un cinema “riposante” perché caratterizzato da musica lenta e colori pastello, ma profondamente “irrequieto”, anarchico, controcorrente. “Les plages d’Agnès” esprime il bisogno della regista di esporsi e documentare – e “auto documentarsi” – per creare una sorta di archivio da preservare, per manovrare il Tempo condensandolo in immagini, per “ricordare mentre si vive”.