di Mariantonietta Losanno
“La conoscenza è nella nostalgia. Chi non si è perso, non ne possiede”: Pier Paolo Pasolini apre l’opera di Mario Martone – adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo del 2016 di Ermanno Rea – che torna sul grande schermo a pochi mesi da “Qui rido io”, presentato in concorso all’ultima mostra del Cinema di Venezia.
Felice Lasco torna a Napoli dopo quarant’anni di assenza. Appena quindicenne ha lasciato all’improvviso la propria città ed è partito per l’Egitto; per quarant’anni la sua esistenza è stata slegata da Napoli, dalle sue persone, dalla sua lingua, dalle sue case e chiese. Felice torna nella sua città con un obiettivo (reso chiaro non a priori): riappropriarsene. Nel suo vagare “confuso” c’è, in realtà, uno schema preciso: ci sono dei “passaggi” da compiere, dei compiti da portare a termine, delle persone da “accompagnare”. Ci sono delle tappe obbligate che, una volta “superate”, consentono a Felice di focalizzarsi solo e soltanto sul suo obiettivo: “riprendersi” Napoli, riacquisire il suo accento, riavvicinarsi alla sua gente. Per fare questo, deve affrontare la memoria, spezzando i silenzi e i segreti; mettendosi a nudo, perdonandosi e provando – persino – a salvarsi. Il suo bisogno (perché si tratta di una necessità più che di un desiderio) di redimersi è talmente forte da rendere Felice ostinato e capace – addirittura – di crearsi dei “propri” ricordi, rifiutando (in parte) quelli reali. “Nostalgia” è, infatti, un’opera sulla distorsione della memoria e sulla difficoltà di accettare che non ci si può riappropriare di quello che non si ha più (o di quello che non si ha mai avuto); Felice prova a “manovrare” il Tempo, quasi a manipolarlo, per poterlo trasformare. Per riappropriarsi dei propri ricordi li altera costruendo nella propria mente una realtà che non esiste; pur di “trovarsi” snatura la percezione delle cose fino alla resa dei conti. “Incredibilmente è tutto uguale”, racconta Felice a sua moglie, rifiutando di guardare realmente quello che lo circonda.
Non sempre ci si ritrova dove ci si aspetta di trovarsi, cioè dalla parte “giusta”. In fondo, però, “chi non si perde non possiede nostalgia”, diceva Pasolini. È necessario, quindi, perdersi per le strade di una Napoli piena di fantasmi, oscura, “sotterranea”; ma che è anche una Napoli che lotta, che è viva e piena di energia. Martone si “perde” nella sua Napoli in un flusso libero di coscienza e conoscenza: che cos’è a tenere in vita la Nostalgia? Il dolore, il rimpianto, la rabbia? Cosa c’è davvero nella Nostalgia? Aver perso le proprie radici può causare un senso di alienazione così profondo che – per difesa – porta alla costruzione di un’altra identità più vicina a quello a cui si vorrebbe assomigliare.
“Nostalgia” riflette sul bisogno di voler tornare, anche quando tutti dicono di andarsene. Tornare per chiudere i conti, per “ingannarsi”, per rivendicare quello che si è perso. Martone esprime un bisogno di regressione raccontando Napoli non facendosi sopraffare dalla (sua) nostalgia; tiene salde le redini della narrazione non cadendo mai nelle trappole della retorica. Un bisogno di regressione espresso (anche) dalla tenerezza nel volersi sentire ancora un “bambino” quando ci si prende cura della propria madre, quando la si vede fragile, “stanca”, sofferente.
Non si vive di soli ricordi, ma non si può rinunciare ad uno stato d’animo che restituisce persone, luoghi, profumi. Non si può rinunciare alla conoscenza, con tutto il bene e il male che questa scelta comporta.