di Mariantonietta Losanno
L’esordio alla regia di Joachim Trier “impone” un linguaggio cinematografico fortemente autoriale. Quella capacità di condurre indagini emotive – quasi fisiche – che contraddistingue “Reprise”, infatti, si ripresenta nelle opere successive, nonostante si “mischi” ad una componente thriller in “Segreti di famiglia”, ad una soprannaturale in “Thelma” e ad una dose di leggerezza ne “La persona peggiore del mondo”.
Joachim Trier dipinge dei ritratti. In “Reprise” racconta la storia di due amici, entrambi scrittori, che vivono in bilico tra la follia e la creatività e che ambiscono a pubblicare la loro opera prima. Per uno il successo arriva subito, per l’altro no. Muovendosi tra crisi artistiche e sentimentali, i due non riescono a trovare la giusta misura esistenziale; si nutrono di ossessioni e di competizioni morbose, diventando (auto)distruttivi l’uno per l’altro. I due protagonisti del primo lungometraggio di Joachim Trier sono l’espressione di una solitudine collettiva e di un senso di smarrimento che colpiscono lo spettatore facendolo sentire imprigionato ed oppresso. Il regista riflette su quanto sia labile il confine tra ispirazione ed ossessione e su quanto – realmente – questo confine contraddistingua la vita degli “artisti”. Viene considerata da molti, infatti, quasi una prerogativa; come se non si potesse dare una definizione di artista senza contemplare anche una lato “maledetto” ed oscuro, come se non ci fosse arte senza tormento. O, più probabilmente, la riflessione di Joachim Trier non si riduce all’aspetto artistico, ma si focalizza su un disagio esistenziale più ampio e complesso. I due scrittori, infatti, non si limitano ad una malinconia “professionale”, sono costantemente in conflitto con la morbosità e l’isteria nei rapporti sentimentali, familiari e di amicizia. Come se fosse una condizione “totale” del loro essere.
“Reprise” racconta frammenti di vita e di psicologia; la regia e la sceneggiatura – scritta a quattro mani con Eskil Vogt – sono misurate e restano in “equilibrio” nonostante i vari cambi temporali e spaziali. Anche i due protagonisti si alternano in modo equilibrato, senza che uno prevalga mai sull’altro.
L’esordio dietro la macchina da presa di Joachim Trier è un’opera in cui è tutto “sbagliato”. Tutto è studiato in modo brillante, ma quello che viene messo in scena è totalmente “sbagliato”. Il percorso artistico, l’amicizia, l’amore, la concezione del successo e del fallimento, l’auto-realizzazione. Tutto è malinconico, oscuro, angosciante. Ed è – ancora – irrisolto, immaturo, disturbante. “Reprise” è la sintesi di una ricerca spasmodica e frenetica di affermazione; è un’opera che “provoca” e che suggerisce una riflessione su quanto si è disposti a spingersi “oltre” per eccellere. Oslo, poi, rappresenta il luogo da cui fuggire e il luogo in cui tornare: l’espressione di un rapporto costante tra odio e amore.