di Mariantonietta Losanno
Il nuovo Diabolik dei Manetti Bros. sembra avvicinarsi a una forma di racconto più classico, che si muove tra il cinema d’azione e quello di intrattenimento. I registi lavorano sull’estetica creando un’opera che va concepita come “fumetto”: il nuovo “Diabolik” funziona per “immagini”. Le scenografie, i costumi, l’essenzialità dei tratti caratteriali sono la trasposizione fedele delle atmosfere del fumetto; quando, però, queste “immagini” interagiscono tra loro perdono efficacia. I personaggi vengono trattati con poca deferenza; i Manetti, infatti, scelgono di non soffermarsi eccessivamente sulla figura di Diabolik (giustificandosi, forse, per la sua impenetrabilità o per la sua natura priva di “sottigliezze”) e di non rappresentarlo come un “anti-eroe” per cui fare il “tifo”. Se la sua figura mantiene (fin troppo) controllo e razionalità, quella di Eva Kant domina la scena, suggerendo anche una riflessione – senza troppa retorica – sulla posizione della donna negli “affari” e sulla non subordinazione a “direttive” imposte da altri.
Adattamento cinematografico dell’omonimo fumetto creato da Angela e Luciana Giussani nel 1962, il “Diabolik” dei Manetti Bros. si concentra sul primo incontro tra il famoso ladro dalle “capacità straordinarie” e la ricca ereditiera Eva Kant, avvenuto nel terzo albo della serie originale, “L’arresto di Diabolik”. Quella dei Manetti è la seconda trasposizione cinematografica del personaggio dopo l’adattamento di Mario Bava del 1968. Sulla rielaborazione del fumetto originale, quindi, c’è poco da dire: il fatto che quella dei Manetti sia la seconda trasposizione non incide sulla riuscita della pellicola. Ci sono opere che non sentono il passare del tempo; basti pensare, infatti, ai classici di Agatha Christie, tanto per fare un esempio. Il fatto, però, è che i fratelli Manetti hanno realizzato un film né “su” Diabolik, né “con” Diabolik. Anzi, Diabolik appare come una presenza quasi “scontata” all’interno della narrazione. Eva Kant, come abbiamo detto, si rivela un personaggio maggiormente carismatico, e anche l’ispettore Ginko, ma su Diabolik non c’è nessun particolare approfondimento psicologico.
Ai fratelli Manetti non interessa “aggiornare” Diabolik e adattarlo ad una versione italiana del cinecomic americano in stile Marvel, sono interessati, al contrario, alla ricostruzione dell’estetica minimalista degli anni Sessanta a cui aderiscono fedelmente. Il fatto che si tratti di un cinema di azione/intrattenimento sembra “danneggiarne” la riuscita, come se non fosse sufficiente. Perché, però, un cinema che ha qualcosa da raccontare e da ricostruire, che cura i dettagli, che funziona nello stile, nella colonna sonora (la pellicola ha vinto il David di Donatello per la Miglior canzone originale con il brano “La profondità degli abissi” di Manuel Agnelli), poi, dovrebbe essere “accusato” di essere “solo” cinema d’azione o di intrattenimento? Forse le troppe aspettative, o forse il fatto che ci si pone in una posizione eccessivamente critica e “anti-cinema”. Se anche si trattasse (solo) di puro intrattenimento, quello dei Manetti si presenterebbe come un prodotto riuscito. Manca, probabilmente, un’originalità spiccata, ma la storia c’è, come i personaggi (anche se non tutti messi a fuoco allo stesso modo) e la musica; ma è giusto criticare un racconto che sceglie di aderire ad uno stile “basico”?
L’accoglienza tutt’altro che benevola fa riflettere: perché le esigenze “commerciali” devono sminuire l’intera pellicola?