IL FANTASMA DEL COMUNISMO

0

danna IL FANTASMA DEL COMUNISMO  

–   di Vincenzo D’Anna*   –                                          

“Uno spettro si aggira per l’Europa: quello del comunismo.”. Con queste parole Carlo Marx introduce il suo “Capitale”, sorta di “bibbia laica” dei compagni, in cui si producono analisi e previsioni economiche sul modello delle società capitalistiche e sui loro inevitabili sbocchi (negativi ovviamente). Un libro scritto agli albori della società industriale (e del capitalismo) nel pieno di quella rivoluzionaria stagione di progresso tecnologico che cambiò radicalmente la vita degli esseri umani, seppellendo definitivamente le vecchie comunità rurali. La tesi di Marx non ammetteva dubbi né postulava errori previsionali, imperniata, com’era, attorno allo storicismo, dottrina filosofica che pretende di poter predire lo sbocco della storia dell’umanità. Inevitabile ed immarcescibile previsione che, attraverso l’analisi economica ed il corollario sociale che essa include, deve essere in grado di poter prevedere lo sbocco futuro del capitalismo. Ebbene, questo nuovo modello sociale ed industriale secondo Marx, avrebbe ineluttabilmente realizzato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e quindi della forza lavoro. Chiara l’antifona: più lavoro più ricchezza per il capitalista, fino ad accentrare, per continue fasi di aggregazione, il tutto nelle mani di pochi plutocrati e sfruttatori. In soldoni: il filosofo di Treviri prevedeva che l’economia sarebbe morta per mano dei capitalisti per asfissia progressiva. Il tutto prevedeva che il proletariato, le classi sfruttate, avrebbero avuto il definitivo sopravvento sui “borghesi”, per vivere in una società libera dall’economia e quindi tra esseri parificati e massificati ai quali avrebbe pensato lo Stato, un’entità superiore in grado di dare a ciascuno secondo le proprie necessità prendendo da ciascuno secondo le proprie possibilità. Per dirla con altre parole: un mondo perfetto nel quale non ci sarebbe stato spazio per l’individualismo e per la libera impresa (la “libertà del poter fare”) né per la proprietà privata, frutto dei soprusi e degli accaparramenti del capitalista, ovvero del grado di sfruttamento al quale costui aveva sottoposto la forza lavoro. Una schiavitù che gli uomini avrebbero accettato come servitù volontaria, in omaggio all’eguaglianza che coincideva con la giustizia. Utopia tragica, quest’ultima, che non valutava né il progresso tecnologico né quello merceologico che avrebbe consentito a sempre più larghe schiere di individui di accedere agevolmente ai generi di necessità ed a quelli voluttuari. Non considerava gli uomini nella loro biologica diversità, intesa come somma dei talenti e delle capacità personali e soprattutto il fatto che, per rendere forzosamente eguali gli uomini, si dovevano piegare i migliori ed i più talentuosi costringendoli a vivere in massa. Questa costruzione forzosa della società degli eguali necessitava della privazione della libertà e dell’autodeterminazione dei singoli individui, piegati all’edificazione dello Stato e della società vagheggiata. Quanto siano state fallaci quelle previsioni e quanto tragiche le conseguenze oggi ne siamo tutti quanti consapevoli. Sappiamo, per verifica sul campo, che gli individui ridotti a numeri ai quali lo Stato garantisce una eguale porzione di felicità, diventano delle larve se non degli aguzzini per poter mantenere la gente prigioniera in un sistema aberrante. In tante nazioni, ove quel modello di società è rimasto in vigore per circa un secolo, il risultato è stato la tirannia delle nomenclature (i capi del partito comunista egemone) e la povertà materiale, per manifesta impossibilità, da parte dello Stato, di poter prevedere e pianificare bisogni e necessità di individui diversi nella loro biologica costituzione. Un lungo, ancorché sommario, preambolo, il nostro, su questa dottrina per dire che nonostante tutto, la mistificazione della realtà dei fatti e la pretesa di costruire una società perfetta hanno abbagliato menti brillanti di uomini capaci. Migliaia di artisti, intellettuali e poeti sono stati affascinato da quell’utopia diventando essi stessi araldi della medesima. Come sia potuto accadere su così vasta scala lo si può spiegare con un solo esempio: il desiderio di poter vivere in una società di persone  ugualmente felici, confondendo il criterio dell’uguaglianza con quello della giustizia. Idealisti posti al servizio di uno scopo irrealizzabile e tirannico come tutte le altre idee utopiche narrate da Platone, Tommaso Campanella e Thomas Moro. Ma non è sparita l’utopia né la tragedia che ad essa si accompagna se c’è ancora chi l’asseconda per moda, nostalgia e perseveranza nell’errore. Un antico proverbio citato anche da Alessandro Manzoni affermava che “del senno di poi sono piene le fosse”. Evidentemente non ancora se c’è chi, approfittando del conflitto in Ucraina ancora evoca ed inneggia a quelle idee e vagheggia il ritorno del fantasma di Marx.

*già parlamentare