DAVID DI DONATELLO, “L’ARMINUTA”: UNA “PICCOLA” OPERA DI (RI)FORMAZIONE FORZATA

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di Mariantonietta Losanno 

Una tredicenne si ritrova a dover abbandonare la sua famiglia e a (ri)formarsi obbligatoriamente in un’altra. Non conosce il motivo di questo cambiamento così drastico, né riesce a spiegarsi perché sua madre (o meglio, quella che ha considerato fosse sua madre finora) la stia abbandonando e la stia “riportando” – come si rispedisce un pacco – alla sua madre biologica. La vita dell’“arminuta”, che in dialetto abruzzese significa la “ritornata”, viene segnata, dunque, da una doppia maternità assente; una madre l’ha cresciuta fino a quando, poi, l’ha “rispedita indietro”, e un’altra l’ha data vita quando aveva appena sei mesi. “Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere. La parola mamma si era annidata nella mia gola come un rospo. Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza”: così la scrittrice Donatella Di Pietrantonio (premiata appena pochi giorni fa, insieme a Monica Zapelli, ai David di Donatello per la migliore sceneggiatura adattata), scrive nel suo romanzo. 

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È una scrittura “riservata”, intima e persino dolorosa quella di Donatella Di Pietrantonio (scrittrice e medico, che ha esordito nel 2014 con “Mia madre è un fiume” ed è stata, poi, acclamata dalla critica per “Bella mia” e “Borgo Sud”, arrivato secondo al Premio Strega 2021): “Il mio “non-metodo” consiste innanzitutto nel pormi in una condizione di estrema permeabilità verso il mondo. Mi lascio attraversare, invadere da tutto ciò che arriva da fuori. So che poi dentro di me avverrà una selezione spontanea degli elementi che nel tempo potranno essere ricompresi nella narrazione”, ha raccontato in un’intervista. Un approccio alla scrittura (non solo nello stile ma anche nei temi trattati) che inevitabilmente riporta ad Elena Ferrante e – soprattutto – a “La figlia oscura”, alla quadrilogia de “L’amica geniale” e a “I giorni dell’abbandono”. A tutto questo si aggiunge poi l’apporto di Giuseppe Bonito, regista fortemente a suo agio con le tematiche familiari, di formazione, di accettazione di sé, che prima di arrivare a “L’Arminuta” è passato per la sensibilità di “Pulce non c’è” (esordio alla regia) e per la profonda sincerità di “Figli”. Un autore incline, quindi, a cogliere lo sguardo disincantato sul mondo che hanno i bambini; capace di far convivere realismo e speranza, di distaccarsi da “etichette” o da tradizioni specifiche del cinema italiano e in grado di lasciare allo spettatore il compito di intravedere qualcosa al di là del puro racconto. Quello che nasce tra Giuseppe Bonito e Donatella Di Pietrantonio, allora, si presenta come un binomio vincente in partenza: “L’Arminuta” è un’opera di sguardi, gesti e silenzi. È un racconto che ferisce e che, ponendo al centro della narrazione una ragazzina di cui non ci è dato sapere il nome (viene chiamata, infatti, solo l’”arminuta”), suggerisce delle riflessioni sulla maternità, sull’abbandono, sulle difficoltà di accettarsi quando non si ha una reale “appartenenza”.

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“L’Arminuta” è un film asciutto e controllato, ma al tempo stesso appassionante; Bonito preferisce lasciare la parola ai paesaggi, ai costumi e alle ambientazioni (quelle dell’Abruzzo del 1975) per soffermarsi (anche) sulle difficoltà di integrarsi in luoghi diversi, a volte ostili, altre semplicemente più “arretrati”, rurali. 

È una pellicola costruita sul silenzio ma che pone al centro della narrazione proprio la comunicazione. Lo sguardo di Giuseppe Bonito dialoga con la penna di Donatella Di Pietrantonio creando un’opera elegante ed equilibrata, in cui i personaggi sono fortemente caratterizzati. Un’opera in cui si costruisce proprio dai “vuoti” e dagli abbandoni, in cui si parte dall’essere “mal amati” per imparare ad amare.