DAVID DI DONATELLO, “A CHIARA”: LA STORIA (NON “VERA” MA REALE) DI UNA CALABRIA IN CUI CI SIAMO TUTTI NOI

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di Mariantonietta Losanno 

Tutto quello che abbiamo già visto, o di cui abbiamo sentito parlare. O meglio, tutto quello che abbiamo già visto associare a luoghi comuni, a (inflazionati) prodotti cinematografici sul tema, a racconti “senza tempo”, cioè senza un inizio “definito”. E se fosse vero (anche) il contrario? Se fosse vero che la nostra conoscenza sull’argomento – proprio perché filtrata dallo sguardo di chi racconta (media, televisione, romanzi, film) – non sia veritiera? Se fosse vero il fatto che sappiamo “poco” di come si “cresce” con un’educazione al crimine? Quello di Jonas Carpignano (regista che vanta una filmografia fortemente caratterizzata) è uno sguardo lucido e attento, forse non “nuovo”, ma capace di suggerire nuovi spunti di riflessione. Una prospettiva diversa perché sposa fino in fondo il punto di vista di tutti i suoi protagonisti, perché estrae la verità dai suoi (non) attori, perché punta un obiettivo e lo centra a pieno.  

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Quale può essere l’obiettivo di una pellicola che racconta la difficoltà di appartenere ad un mondo di cui non si condividono le scelte? Probabilmente, raccontare quanto opporsi sia una scelta tanto coraggiosa quanto (spesso) pericolosa. Se ne “Il bambino nascosto” Silvio Orlando aiutava un “potenziale criminale” a venire fuori – ancora prima di essere entrato – da una realtà che non concede redenzione, in “A Chiara” c’è una lotta affrontata quasi per la gran parte autonomamente. Chiara si trova a scontrarsi con una famiglia che appoggia pienamente gli ideali di vita criminale, li condivide, li mette in atto; lei “combatte” ponendosi domande, dimostrando la volontà di costruirsi una propria idea sulle cose non per forza influenzata da tutto quello che le appartiene per nascita. Ed è quando scopre che suo padre è un perfetto estraneo e che il fatto stesso di essere sua figlia comporta – di conseguenza – far parte di “quel mondo”, che diventa “vittima” di quel sistema, incattivendosi. Sente gli sguardi di chi – sapendo da quale famiglia proviene – la teme, la compatisce, o la guarda persino con rispetto. Quegli sguardi, però, non solo non li tollera, ma non è nemmeno in grado di attribuire loro un significato: sentendosi estranea ad una realtà criminale, Chiara non riesce neppure a spiegarsi come sia possibile che “altri” la ritengano invece parte integrante. “È tanto brutto questo lavoro?”, le domanda suo padre, come a voler insistere sul fatto che dietro a quello che per altri è “solo” criminalità, per chi condivide quelle idee è, invece, sacrificio, dedizione, lavoro. 

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Il regista non cede a facili giudizi, soffermandosi, invece, sull’idea di appartenenza a cui (forse) ci si può opporre. Non sempre, ma ci si può provare. Ci sono famiglie che non lasciano “scampo” ai propri figli, spingendoli a delinquere anche soltanto per portare avanti un “nome”, per impedire che decada l’importanza che ricopre. Chiara si oppone a tutte le regole, anche a quelle che prevedono l’adesione – a priori e senza diritto di scelta – ad un particolare tipo di mondo. Jonas Carpignano padroneggia un’idea di Cinema “chiara” e lineare: “Abbandonare l’appartenenza ad una comunità per trovare la propria via non è sempre una scelta. Ci sono persone che lasciano completamente le radici, altre che trovano una via di mezzo, altre che rimangono radicate al loro mondo”, spiega in un’intervista. “A Chiara” – che ha ricevuto sei candidature ai David di Donatello 2022 – è un prodotto sincero e diretto, che mescola passato e presente, realtà e allucinazione per soffermarsi sulla possibilità (che si ci crea da soli o che viene data da altri) di riuscire a svincolarsi – per sopravvivere – da logiche mafiose e patriarcali. 

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La pellicola di Jonas Carpignano racconta lo straordinario percorso di riappropriazione di una libertà individuale, al di là del sangue e del destino. Pone al centro della narrazione un personaggio che di fronte ad una realtà “scomoda” non volta lo sguardo altrove, la affronta. Nonostante la sorella la definisca “egoista” e la madre provi a tranquillizzarla, lei prosegue nel suo percorso di formazione e di costruzione di sé lontana da schemi preimpostati. Chiara conduce la sua personale inchiesta, non accetta facili rassicurazioni né tantomeno compromessi. Va a fondo, insiste, non giustifica, osserva. Il regista “dedica” la sua opera – come la precedente “A Ciambra” – a tutti i ragazzi coraggiosi che provano a cambiare la percezione delle cose per sviluppare una propria prospettiva. Perché forse, alla fine, non è tutto bianco o nero: si può anche scegliere.