di Mariantonietta Losanno
A Johnny viene affidato un ruolo insieme pericoloso e privilegiato: prendersi cura di suo nipote Jesse portandolo con sé da Los Angeles a New York mentre sua sorella Viv – madre di Jesse – corre in soccorso del marito affetto da disturbi bipolari. Johnny è un giornalista radiofonico che lavora ad un progetto “itinerante”; conduce, cioè, delle interviste agli under 12 sulle loro speranze, aspirazioni segrete, progetti. Fornisce loro, quindi, la possibilità di vedersi come protagonisti, meritevoli di tempo e di attenzione; e l’occasione per raccontare (anche) quello che non hanno mai detto. Quando si trova a dover badare a Jesse, però, è lui a doversi esporre, “autointervistandosi”: come si diventa genitori? Inizia, così, una lunga, movimentata, buffa e snervante disamina di quella che una volta si chiamava figura paterna e oggi è una specie di “buco nero” che ciascuno riempie come può.
“I bambini ci guardano”, come ha raccontato – nel 1943 – Vittorio De Sica nella sua opera “anti-familiare” ed illuminante. E, ancora, i bambini ci (ri)guardano, come ci ha insegnato Céline Sciamma nel suo “piccolo” film “Petite maman”: ci studiano, ci sfuggono, ci anticipano, ci mettono anche all’angolo, e ci rigirano persino come calzini. Ci fanno sentire inadeguati, “incompetenti”, fragili. È anche vero, però, che il detto “I bambini ci guardano” oggi non mette in guardia più nessuno. I ruoli e le priorità si rimescolano costantemente e sono (a volte) più i figli a conoscere i “trucchi” per mettere in crisi gli adulti che il contrario. “Cosa speri di ricordare dei tuoi genitori?”, chiede Johnny in un’intervista: “Che ci sono sempre stati per me”, risponde in modo semplice ed efficace una ragazzina. Cosa significa, realmente, “esserci”? Cosa dovrebbe fare un genitore per dimostrare al proprio figlio di “esserci”? Ispirarlo, incoraggiarlo, assisterlo, conoscerlo, tanto per cominciare. Aiutarlo, forse, anche ad attribuire significato a questa “vita felice, triste, piena, vuota, mutevole”. Se è vero che nel “ruolo” di genitore rientrano tutti questi “compiti”, è vero anche che sono i figli, poi, ad aiutare i genitori ad accettare i loro fallimenti. Perché anche – e soprattutto – i genitori falliscono. Sono impacciati, hanno dei limiti. Sbagliano ogni volta che non sanno dire “no”, quando alzano la voce – o quando non la alzano – per istintività o semplicemente perché sono annebbiati dalla voglia di rendere incisive le loro parole. E sono sempre i figli a “far capire” ai propri genitori che possono farcela, ad insegnare loro cosa significhi rinunciare un po’ a se stessi per dedicarsi a qualcun altro.
Mike Mills mette in scena un’affascinante percorso di formazione che sente l’esigenza di arrivare ad una conclusione: essere genitori è tanto complicato quanto gratificante. In una suggestiva atmosfera in bianco e nero che ricorda “Alice nelle città” di Wim Wenders e – per il taglio documentaristico – “Comizi d’amore” di Pier Paolo Pasolini, “C’mon c’mon” è una presa di coscienza sulla genitorialità, un’opera che “non vuole dimenticare” e che continuamente registra, raccoglie dati, ascolta.
La pellicola dà allo spettatore la possibilità di “trovarsi”, collocandosi in uno “spazio familiare specifico”. Ci si conosce, ci si analizza, ci si ama.