di Mariantonietta Losanno
Cosa significa “portami a casa” quando non si ha nessun posto dove tornare? “Portami”, come a voler dire “accompagnami”, “guidami”; diverso, quindi, da “torniamo a casa”, perché non equivale a dire “torniamoci insieme”, ma esprime la necessità che ci si torni da soli, ma “accompagnati da qualcuno”.
“Lead Me Home”, candidato ai Premi Oscar nella categoria miglior cortometraggio documentario, si presenta – insieme a “Flee” e “The Long Goodbye” – come una riflessione sull’idea di casa e sul significato di “appartenere”. Appartenere ad un luogo, ma anche a se stessi. Distaccandosi dalla struttura narrativa delle altre due pellicole candidate nelle categorie miglior film d’animazione, miglior documentario, miglior film in lingua straniera per “Flee” e miglior cortometraggio per “The Long Goodbye” (vincitore tra gli altri film in gara), “Lead Me Home” ricorda maggiormente l’opera di Chloé Zhao “Nomadland”, vincitore del Premio Oscar come Miglior Film nel 2021. Entrambi i film, infatti, si focalizzano sul bisogno costante di trovare se stessi, nonostante i legami con il mondo sembrano essere recisi in modo irreversibile. La frase di congedo di Chloé Zhao “Ci vediamo lungo la strada”, riporta a “Forse da qualche parte c’è qualcuno che mi aspetta/Forse ci sarà un posto dove fermarmi e riposare un po’” di “Lead Me Home”: esiste – davvero – un posto dove fermarsi? Dove “stare”, dove “esistere”?
Mentre in “Flee” si fuggiva e in “The Long Goodbye” si diceva addio, in “Lead Me Home” si vuole tornare a casa. “Quale” casa, però? Il racconto di Pedro Kos e Jon Shenk è scandito da interviste ai senzatetto di Los Angeles, San Francisco e Seattle. C’è chi racconta di aver bisogno di cure psichiatriche, di aver sofferto di depressione, di problemi di salute mentale o familiari, di abuso di sostanze stupefacenti. Chi, dopo un coming out, ha perso il sostegno della famiglia; chi, ancora, ha subito di molestie o è affetto da disabilità. Situazioni estreme che comportano, a loro volta, altre conseguenze: problemi di igiene, rischi di malattie, violenze (sparatorie, molestie, accoltellamenti), criminalità. Mezzo milione di americani vive la condizione di senzatetto: come gestire un’emergenza di questa portata? Come concepire, poi, il “fenomeno” in sé? Solo perché si presentano come situazioni estreme, non vuole dire che non possano capitare a chiunque. Non vuol dire, cioè, che siano realtà lontane o con cui non ci si possa immedesimare. Quella di “Lead Me Home” è una realtà così grande da non avere limiti, in cui non si vedono confini.
In “Lead Me Home” il tempo si dilata. “Ogni strada mi porta lontano da me/Non ce n’è nessuna che mi porti a casa/Non continuerò a girovagare quando troverò un posto dove riposarmi”: “Lead Me Home”, girato dal 2017 al 2020 (comprendendo, quindi, anche l’emergenza Covid-19), concentra immagini misurate e storia di anime che lottano per (soprav)vivere. È un’opera che fa riflettere su quanto possa essere scivolosa la strada che porta a perdere la propria casa. I registi indagano il fenomeno dei senzatetto con l’obiettivo di rendere l’esperienza più “umana”, più comprensibile. Perché chi si trova in strada non vuol dire che se lo sia meritato. Non vuol dire, cioè, che sia un “merito” farsi la doccia nelle camere degli alberghi, sentirsi in pericolo, fuggire da un ex compagno violento e portare (persino) in grembo il figlio di quella stessa cattiveria. Non si è destinati ad essere vagabondi: quando si potrà stare in strada solo per viaggiare, o per guardare l’alba, allora tutte le strade porteranno a “casa”.