di Mariantonietta Losanno
Vincitore del Premio Oscar come miglior cortometraggio, “The Long Goodbye” è il racconto (concitato) di un’escalation di violenza razzista. Tutto ha inizio in un clima di estrema serenità: Riz e suo fratello più piccolo si divertono a fare un simpatico balletto goliardico. Dall’armonia si passa – pericolosamente – alla nevrosi più totale, per arrivare, poi, ad una violenza devastante. Una marcia di estrema destra che si svolge in sottofondo sulla televisione, arriva alla porta di ingresso della famiglia di Riz.
Il corto nasconde – apparentemente – la sua complessità per poi svelarsi apertamente: l’opera espone la realtà di tante persone che sentono di non essere benvenute nel paese che chiamano “casa”. Il tema di fondo riporta, in modo immediato, ad un altro film in corsa agli Oscar nella categoria Miglior Documentario, “Flee”, di Jonas Poher Rasmussen. Entrambe le pellicole, infatti, riflettono sul significato della parola “casa”; entrambe si presentano come percorsi poetici e documenti di cronaca reale, in cui al centro di tutto c’è il desiderio di sentirsi al sicuro. “The Long Goodbye” e “Flee” sono racconti di dolore; il corto di Riz Ahmed (protagonista di “The Sound of Metal”, vincitore ai Premi Oscar 2021) e Aneil Karia, però, ricorda la violenza brutale di Kassovitz ne “L’odio”. “The Long Goodbye” – come il cult di Kassovitz – non ha paura di “sporcarsi le mani”: non da tregua e mantiene costantemente uno spietato rigore realistico nel tratteggiare uno spaccato sociale.
Quella di Ahmed e Karia è un’opera dura, in cui i movimenti nevrosi della macchina da presa e il montaggio serrato logorano e sfiancano lo spettatore nonostante la durata di appena undici minuti. La crudeltà messa in scena si presenta senza filtri: in questo estenuante martirio di difficile contemplazione non si hanno “mezzi” per difendersi. La violenza colpisce in modo diretto e brutale attraverso lo sguardo disperato di Ahmed che, rivolgendosi in macchina, si arroga il diritto di “sbattere” in faccia allo spettatore la “follia” che contraddistingue da tempo la società. Il sermone rap di Riz (che, nel 2020, ha presentato al pubblico il suo secondo album in studio che porta lo stesso titolo del corto) racconta il dolore subito da intere generazioni: “Molte persone in questo momento si sentono come se stessero attraversando una rottura con il loro paese. Aneil Karia e io volevamo fare un film che portasse questo sentimento alla sua conclusione”, hanno raccontato gli autori durante un’intervista.
La violenza si fonde con il senso di estraneità che si avverte nel non appartenere a nessun posto: “Probabilmente vengo da tutte le parti e da nessuna”, racconta in modo brutale Ahmed. “The Long Goodbye” è un’opera profondamente attuale, caratterizzata da un ritmo ferrato e dall’intento di raccontare una società che precipita verso un abisso di ingiustizia, intolleranza e violenza. Il problema, come lo era per Kassovitz, è sempre l’“atterraggio”.
Il corto di Ahmed e Karia si presenta sotto forma di “domino”, le cui tessere cadono una dopo l’altra. Si passa – in appena undici minuti – dalla rappresentazione dell’odio all’odio della rappresentazione, ricordando il neorealismo di “Roma città aperta” di Roberto Rossellini.