OSCAR 2022, “LA FIGLIA OSCURA”: LA VOCE NASCOSTA DI ELENA FERRANTE E L’ESORDIO ALLA REGIA DI MAGGIE GYLLENHAAL

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di Mariantonietta Losanno 

Si potrebbe pensare che l’anonimato di uno scrittore preservi la sua libertà di espressione e, per questo, debba – di conseguenza – essere protetto: sono le storie a dover “parlare”. Il “fenomeno Elena Ferrante” si concentra su temi simili in opere diverse; quello che funge (quasi sempre) da sfondo è una Napoli che emerge dai dialoghi o dalle descrizioni dei personaggi, poi ci sono i legami familiari raccontati – spesso – da giovani donne che osservano e interpretano le scelte dei propri genitori (la tetralogia de “L’amica geniale”, “La vita bugiarda degli adulti”, “L’amore molesto”), attraverso uno sguardo che pian piano perde disincanto. 

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Ne “La figlia oscura” si affronta il rapporto genitoriale e la maternità. Si indagano le attenzioni morbose delle madri nei confronti dei figli e l’esatto opposto: la disperazione che scaturisce dal non sapere amare “abbastanza”. Maggie Gyllenhaal, per la prima volta dietro la macchina da presa, adatta il racconto di Elena Ferrante realizzando un’opera che si astiene da ogni forma di giudizio. Protagonista della storia è Leda, una docente americana di letteratura italiana che, durante una vacanza in Grecia incontra Nina, una giovane madre che vive – o sembra che viva – in simbiosi con la propria figlia. 

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Ammettere che esistano madri che non amano i propri figli è un “azzardo”. E di questo, sia Elena Ferrante che Maggie Gyllenhaal, ne sono pienamente consapevoli. La storia di Leda, però, non è un “caso limite” (non ci sono patologie mentali conclamate, tossicodipendenze o situazioni “limite” di altra natura); si fa riferimento ad una donna “comune” incapace di darsi incondizionatamente ai figli e alla famiglia. C’è chi giudicherebbe egoista una donna incapace di dare tutto l’amore del mondo al proprio figlio, o anaffettiva, distaccata. O, ancora, crudele, tossica, pericolosa. Sentirsi rifiutato da una madre è quasi una negazione dell’essere.

Provando, però, ad approcciare ad un tema del genere astenendosi dal giudicare, si può pensare ad una madre non come una ad (super)persona (o una super-eroina (?) non per forza in grado provare un amore totalizzante e né tanto meno capace di saperlo trasmettere ai propri figli. Il fatto di dire apertamente – con la stessa disperazione di Leda – che la vita senza i figli sarebbe stata diversa o, addirittura, che il tempo passato lontano da loro può ritenersi persino “stupendo”, influenza la percezione che si ha della persona che osa esprimere questi pensieri e, automaticamente, crea una sovrapposizione immediata tra la persona in quanto tale e la persona in quanto madre. Non sono due entità distinte, ma necessariamente un’unica. “La figlia oscura” (sia il romanzo che la messa in scena, nonostante gli approcci differenti al tema) è un’indagine sulla maternità, che ha lo scopo, però, di non voler trovare necessariamente un colpevole. Leda soffre osservando Nina e sua figlia, provando gelosia nel non essere stata capace, quando aveva la sua stessa età, di essere come lei. Addirittura la gelosia la porta a voler “rimediare” e a rivivere l’esperienza di madre avendo altre consapevolezze, ma con un “fantoccio” e non con le sue vere figlie. Quando, però, anche Nina si mostra umana e commette errori (non gli stessi, ma che “intaccano” comunque l’idea di madre), Leda non prova più la stessa invidia: si rompe, cioè, quell’idea di perfezione che l’aveva spinta a trovare un modo per redimersi e perdonarsi. 

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Leda vorrebbe che le figlie non le somigliassero: “Le parti più belle che hanno sono quelle che mi sembrano estranee”, dice parlando di loro. Vorrebbe impedire che “ereditassero” da lei la sua incapacità di amarle. Al di là dei giudizi, delle responsabilità, delle circostanze specifiche, si può affermare realmente che esista, per una madre, un modo di amare? E che si presenti, addirittura, come “manuale da seguire” per tutte le altre? Chi lo avrebbe “istituito”? Chi avrebbe definito i limiti, i doveri, i metodi educativi? Leda, prima di essere una madre, è un essere umano che si scontra con le sue paure e le sue debolezze. Nessuno può giudicare il “troppo amore” o il “poco amore”. Quello di Maggie Gyllenhaal è un esordio alla regia che si distacca dai riferimenti per diventare autonomo; che esplora le contraddizioni della maternità (riportandoci ad opere come “Madres paralelas”, “Il vizio della speranza”, “La scelta di Anne”), “entrando” con intensità in pensieri che si vorrebbero tenere nascosti. “La figlia oscura” – che ha ricevuto tre candidature ai Premi Oscar 2022 – riflette sulle “impurità” di un genitore senza prendere posizioni, indaga sui segreti di una madre schiacciata dai sensi di colpa, sdoganando l’idea che la maternità si presenti necessariamente come un’esperienza positiva. Esplora l’esigenza di pace (che si presenta tardiva ma non per questo meno necessaria) di una donna che ha bisogno di riconciliarsi con se stessa e di accettarsi.