OSCAR 2022, “I SEGNI DEL CUORE” (CODA): UN FILM “PICCOLO” E CONVENZIONALE O UN’ORIGINALE VARIANTE AMERICANA?

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di Mariantonietta Losanno 

Remake de “La famiglia Bélier”, “I segni del cuore” ci riporta ad un anno fa e alle sei candidature e ai due Premi Oscar vinti di “Sound of Metal”; all’idea, quindi, di “inclusività” che gli Oscar vogliono suggerire attraverso – in questo caso – un silenzio capace di comunicare. “I segni del cuore” racconta la storia di Ruby, una ragazza udente in una famiglia di non udenti che da sedici anni è l’interprete – e la voce – dei suoi genitori e di suo fratello. Appena entra a far parte del coro scopre di avere una forte inclinazione per il canto. Persuasa dal suo insegnante, si convince a considerare l’iscrizione a un conservatorio musicale lontano dalla sua città e, quindi, anche dalla sua famiglia. 

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Quella de “I segni del cuore” incarna un’idea di cinema che ha bisogno di essere contestualizzata. Vanno date per scontate, cioè, una serie di convenzionalità tipiche di questo genere di film. Innanzitutto, (quasi) tutti i film che trattano di malattie invalidanti o sensibilizzano su temi che suscitano una particolare empatia, provocano una commozione – a tratti – forzata. Insistono, cioè, su alcuni aspetti che solo in quanto tali colpiscono. Non solo: “I segni del cuore” ha una doppia “serie di convenzionalità”. Quelle che riguardano l’invalidità da un lato e quelle che si riferiscono alla classica commedia americana (la ragazza emarginata, il forte talento inespresso, l’audizione dell’ultimo minuto, l’azione che si sviluppa a pieno proprio nei quindici minuti prima della fine) dall’altro. Se ci si soffermasse, però, solo su questi aspetti non si riuscirebbe ad andare oltre: “I segni del cuore” mette in scena difficoltà familiari che – estrapolate dal contesto specifico – possono essere comprese facilmente dallo spettatore. Sorvolando, infatti, per un attimo sul discorso della sordità, quello che vive Ruby rappresenta quello che tante altre adolescenti affrontano: lasciare la propria famiglia, una volta che, per motivazioni diverse, si è instaurato un legame “morboso” non è facile. E anche nel caso non ci sia un legame “morboso”, andare via di casa per “inseguire il proprio sogno” è una fase di passaggio complessa e da cui molti giovani “scappano” nel verso opposto (decidendo, cioè, di non affrontare); soprattutto, poi, quando i legami extra-familiari non sono così forti (perché a scuola non sempre si instaurano rapporti) la difficoltà di costruirsi il proprio futuro slegandosi da quello che ha sempre dato protezione, diventa una sfida con se stessi. 

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E, ancora, guardando al di là degli schemi mainstream che il film segue (anche solo pensando al titolo), “I segni del cuore” è (anche) il racconto di un’atipicità che conquista: una “stranezza” che ricorda quella di “Little Miss Sunshine” in cui, una famiglia “sopra le righe”, attraverso un’esperienza tragicomica, metteva a nudo tutte le proprie debolezze. Sian Heder sceglie un approccio ironico, dipingendo una famiglia “stravagante” ma affiatata; in cui si litiga ma in cui, poi, si ha il coraggio di chiedere scusa. “I segni del cuore” è, quindi, un racconto concreto e rassicurante, che cade – necessariamente (?) – in scorciatoie strappalacrime, ma che prova ad emozionare con autenticità e originalità. Sian Heder “fa sentire la propria voce” all’interno di un genere già sondato, ma che non smette di “far stare bene” se si concepiscono il linguaggio e la forma. La pellicola – con tre candidature ai Premi Oscar – insiste sull’idea di saper lasciare andare senza abbandonare, “ascoltando se stessi”. 

“Sound of Metal” insisteva maggiormente su un’idea di intimità e solitudine lavorando per costante sottrazione; ne “I segni del cuore” c’è un’abbondanza di temi, idee e personaggi che lascia troppo poco spazio alla percezione sonora e sensoriale, prediligendo un approccio “bonario” da commedia.