di Mariantonietta Losanno
Cinema “a tre”: Kiarostami, Olmi e Loach. Una fusione di generi e di idee. Quello di Ken Loach è un cinema libero ed impegnato, in cui si resta “impigliati” nei personaggi, nelle loro difficoltà di adolescenti (“Sweet Sixteen”), nelle loro realtà di clandestini messicani (“Bread and Roses”) o nei loro “impegni di guerra” (“Il vento che accarezza l’erba”). Una cinema capace di generare empatia e di infondere energia; un cinema “combattivo” che fa luce su realtà spesso ignorate, come quella di “Sorry we missed you”, in cui Ken Loach dà voce alle famiglie che affrontano le conseguenze che il nuovo mercato economico impone, o quella di “Ladybird Ladybird”, in cui racconta la storia di un proletaria a cui sono stati sottratti i figli dagli assistenti sociali. Un cinema, quindi, che “si impegna”, oltre ad essere impegnato; che si concentra sulle evoluzioni del lavoro e le mette in scena. Kiarostami, invece, ha modellato il proprio linguaggio facendosi da tramite di un cinema “invisibile”, facendo apprezzare – o, meglio, scoprire – al pubblico l’emozione e la bellezza del cinema iraniano (“Dov’è la casa del mio amico?”, “Close Up”, “Sotto gli ulivi”). Kiarostami riflette sull’idea del cinema e sulla sua essenza di verità, sulla necessità di convivere con il dolore e di cercare la “poesia” interrogandosi sulla distanza tra realtà e immaginazione. Ermanno Olmi, infine, è stato più un “uomo” che un regista: “Io mi sento più uomo che regista, così come, fra il pubblico, io cerco sempre più l’uomo che lo spettatore”. Il suo è un cinema che mantiene uno sguardo penetrante e asciutto sulla realtà quotidiana dei più umili (anche attraverso la presenza di attori non protagonisti), che ribadisce il valore del “necessario” e che sa descrivere (anche) attraverso silenzi ed immagini (“Il tempo si è fermato”, “L’albero degli zoccoli”).
La fusione di queste tre idee differenti di cinema dà vita ad una pellicola articolata in tre episodi, ambientati in treno, che sembrano tre film diversi, diretti ognuno alla propria maniera. “Tickets” è un cinema “a più colori” (tra cui, quello di Ken Loach, è sicuramente il rosso se pensiamo a “Terra e libertà” e a “Bread and Roses”), un insieme di suggestioni che si uniscono ma che non sempre sanno “incastrarsi”. È proprio il treno che “scorrendo” funge da collegamento tra i tre registri stilistici. I protagonisti delle storie sono persone comuni: un uomo che si innamora platonicamente di una donna che gli ha mostrato cortesia e gentilezza e che gli concede un’“aspettativa di felicità”, una donna anziana arrogante che maltratta un giovane che lavora per lei e quest’ultimo cerca rifugio nel dialogo con un’adolescente; una famiglia di extracomunitari che si scontra con la chiassosa ilarità di tre giovani tifosi del Celtic in viaggio verso Roma per una partita di Coppa.
Kiarostami, Olmi e Loach percorrono lo stesso viaggio e al tempo stesso tre viaggi differenti. Ognuno segue la sua strada, senza una continuità. L’armonia di intenti non si trasforma in un’armonia narrativa: il dolore dell’esilio della famiglia albanese, il discorso sull’amore e l’idea di fratellanza restano temi trattati in superficie e non approfonditi a dovere. Le storie appaiono accennate: è come se non si arrivasse mai a “destinazione”. Una volta “saliti sul treno”, i tre registi procedono per la propria strada seguendo tre visioni differenti del mondo. È chiaro, però, che da tre differenti idee di cinema sarebbero scaturite tre differenti racconti; manca, però, uno sguardo unitario che crei linearità all’opera. “Fare film è un mestiere solitario”, ha detto Kiarostami. Probabilmente sì, o probabilmente no. Perché, tre approcci al cinema forniscono (anche) tre – o più di tre – spunti di riflessione. Il problema sta, però, nel fatto che un’opera così coraggiosa da voler accogliere tre stili avrebbe dovuto anche saperli rendere coerenti all’interno della narrazione. A sé stanti, ma coerenti; come un unico “flusso”.
Quello di Olmi è l’episodio più “tenero”, sospeso tra sogni ed incertezze, tra quel “proposito d’amare” di Giorgio Gaber e la realtà che spesso distrugge le illusioni. Ken Loach è più attento alle tematiche dell’immigrazione, del razzismo e dei soprusi; Kiarostami più concentrato sul passato, sulla dignità e sulle ribellioni personali. Però, le tre personalità “ingombranti” dagli stili ben riconoscibili, pregiudicano l’omogeneità del film. Più che concepirlo come un racconto a tre episodi, sarebbe più giusto immaginarlo come una serie di incontri: in questo modo, il treno “non deraglia”. Incontri di personaggi, di culture, di idee, di cinema.