di Mariantonietta Losanno
“Ai miei figli, giovani oggi, vecchi domani”: Pirandello, “I vecchi e i giovani”. Pubblicato per la prima volta nel 1909, si tratta di un romanzo “non storico” ma che si nutre di storia. Un racconto che affida alla letteratura il compito di costruire le vicende della Sicilia dopo l’impresa dei Mille; che si concentra tutta – al di là di qualche vicenda d’amore di non grande rilievo – sulla formazione di (quasi) una sorta di galleria di personaggi, chiamati, di volta in volta, a rappresentare lo stato di confusione e di esasperazione tipico di una situazione collettiva e conflittuale.
“Leonora addio” è un cerchio che si chiude: è la “fine” di una collaborazione durata una vita intera e concretizzata in diciannove film, e di un discorso che inizia in un “modo” e si chiude in quello “opposto”. Paolo Taviani restituisce un’eredità, quella di un autore “inquietante” e problematico di perenne attualità che affrontò – in modo innovativo – l’inafferabilità e l’incertezza della realtà quotidiana attraverso temi, personaggi e ambienti; di una presenza – quella di Vittorio – che si avverte in modo struggente e tangibile; di un qualcosa che oggi il cinema offre di rado. “Leonora addio” è (dichiaratamente) un film sull’elaborazione di un lutto letterario e personale; è un’opera in cui passato e presente coesistono, in cui si riflette sulla necessità che “il tempo passi”. È un racconto fatto di verità, nella Storia come nella vicenda personale dei Taviani.
La pellicola si apre con la narrazione del viaggio delle ceneri di Pirandello e si chiude con la novella “Il chiodo”, scritta poco prima di morire, nel 1936. Nonostante, quindi, Pirandello appaia “già morto” sin dalla prima scena (come se, in sostanza, non apparisse), è la presenza che guida tutto il film; così come Vittorio, guida silenziosa di tutta l’opera. C’è, però, un inizio anche nella fine. E nell’opera disordinata di (e dei) Taviani si avverte l’esigenza di far fluire il Tempo nonostante non ce ne sia più. “Leonora addio” si disunisce (“disobbedendo” a Sorrentino) per poi fornire un ritratto rigoroso di un autore che ha rivelato una creatività e una libertà sempre vive, e di un’Italia in anni di guerra e distruzione, di speranza e ricostruzione.
“Leonora addio” (aria de “Il Trovatore” di Verdi e titolo di una novella pirandelliana), unica pellicola italiana in concorso alla settantaduesima edizione del Festival di Berlino, è l’esempio di un cinema che sopravvive; è un’opera profondamente e ostinatamente originale, alimentata da continue suggestioni letterarie, storiche, cinematografiche. I Taviani avevano già raccontato Pirandello in “Kaos”, trasponendo quattro novelle della raccolta “Novelle per un anno”; “Leonora addio” è, invece, prima una rocambolesca avventura delle ceneri dello scrittore siciliano che troveranno degna sepoltura solo nel 1947 e poi la messa in scena di un racconto “acceso” – “Il chiodo” – ambientato nella New York degli anni Trenta e che funge da collante per l’incipit del film. Paolo Taviani celebra la vita stessa come una performance e omaggia suo fratello (“Vittorio è qui con me, lo è sempre stato. […] Alla fine di ogni scena mi voltavo sul fianco cercando la sua approvazione: anche senza vederlo lui c’era”), dimostrando come la loro sintonia sia così profonda da sopravvivere (anche) attraverso il Cinema.