di Mariantonietta Losanno
“L’elefante nella stanza” è un’affermazione dei paesi anglosassoni per indicare verità e/o problemi che, per quanto palesi e “appariscenti” per tutti, vengono ignorati o non presi nella giusta considerazione. Il titolo di Gus Van Sant però, chiaramente si ispira anche all’omonimo cortometraggio diretto da Alan Clarke nel 1989, che ha come tema di fondo il conflitto nordirlandese: entrambe le opere, infatti, hanno uno stile minimalista caratterizzato da pochi dialoghi e sono state realizzate con riprese in steadycam. Se il corto di Alan Clarke – prodotto da Danny Boyle – denunciava l’indifferenza generale riguardo agli evidenti problemi sociali in Irlanda del Nord, Gus Van Sant si concentra sul tema della violenza giovanile ricostruendo il massacro della Columbine High School.
Il 20 aprile 1999 due ragazzi di diciassette anni entrarono armati nella loro scuola: uccisero tredici persone, ne ferirono ventiquattro e poi si suicidarono. Non esiste una razionalizzazione accettabile per quello che è accaduto in quella scuola; Gus Van Sant sceglie, allora, di approcciare alla violenza con distacco, osservando senza mai empatizzare. Sceglie di utilizzare, poi, attori non professionisti e liberi di improvvisare (stessa scelta che adotterà in “Paranoid Park”, in cui – dopo la parentesi “Last Days” ispirata a Kurt Cobain – tornerà a parlare di adolescenti): la violenza che ne viene fuori viene privata il più possibile da ogni plausibile “motivazione” o contesto sociale. La pellicola procede ad un ritmo lento ed alienante, fornendo più di una prospettiva; i due ragazzi, prima di progettare la strage, disegnano, suonano musica classica, trascorrono il tempo tra videogiochi violenti e primi approcci alla sessualità. Un “normale” quadro adolescenziale che non può far presagire l’intento di voler fare del Male per il “piacere” di farlo. Nella banalità del quotidiano di due ragazzi come tanti esplode una ferocia priva di ogni logica. In fondo, però, come potrebbe la violenza convivere con la razionalità? Gus Van Sant sceglie volutamente di rappresentare una realtà psicologica complessa ed inspiegabile inserita in un’atmosfera inquietante ed ambigua; sceglie, cioè, un approccio “non educativo” per riflettere la reale impossibilità di attribuire significato a tale violenza. Il regista, poi, non “espone” i corpi delle vittime ostentando la brutalità degli omicidi: si concentra sulle decisioni, sulla pianificazione del massacro, sugli sguardi degli assassini, sul contesto scolastico e familiare e sulle responsabilità di entrambi.
Quello di Gus Van Sant è, allora, un cinema di “realismo” – concetto cardine degli studi di André Bazin – che mantiene una cifra autoriale immediatamente riconoscibile e che continua a indagare, attraverso linguaggi e modalità diverse, temi, figure e ossessioni. I giovani – siano ribelli, reietti, ai margini della società, in conflitto con le famiglie – popolano le sue pellicole fin dal suo esordio con “Mala noche”; Gus Van Sant si concentra sull’impossibilità di trovare un luogo di appartenenza, di vivere in un’“apatia pericolosa”, di non saper sostenere le ferite, il proprio inconscio e i propri demoni. “Elephant”, Palma d’Oro al miglior film e premio per la miglior regia al 56esimo Festival di Cannes, sembra riprodurre tutti gli “schemi adolescenziali” classici: genitori assenti, ostili o distratti, ragazzine anoressiche, atti di bullismo. Un quadro di desolante vuoto esistenziale. Provando a soffermarsi su una possibile prevenzione, è ipotizzabile che genitori, docenti o autorità potessero evitare il massacro? Come ci si assume la responsabilità di affermare che “qualcuno” potesse impedire la strage? È necessario soffermarsi sul come si sarebbe potuto agire per evitare che accadesse, non sulle cause che hanno portato all’azione. Analizzare, quindi, quali meccanismi possono essere messi in atto dal contesto scolastico e da quello familiare – agendo in modo coordinato – per intervenire prima che si manifestino pensieri che si trasformano, poi, in azioni irreversibili. Perché, se veramente si ipotizza l’impossibilità di intervento prima che si verifichi la violenza, allora significherebbe ammettere il fallimento totale dal punto di vista sociale, scolastico e familiare. Possibilità di intervento che non vuol dire necessariamente possibilità di riuscita, ma interazione con il giovane, dialogo, ascolto, inserimento.
Gus Van Sant non concede possibilità di redenzione, ma assistere ad un’opera simile senza analizzare quel concetto di Male fine a se stesso significa fuggire per paura provando a deresponsabilizzarsi. La violenza può essere fine a se stessa, e in alcune circostanze lo è, ma non guardare quell’“elefante nella stanza” vuol dire forse, in parte, rendersi colpevoli.