di Mariantonietta Losanno
Emma Seligman si muove a metà tra il cinema di manipolazione di Darren Aronofsky e quello angosciante di Yorgos Lanthimos. È in (dis)equilibrio, cioè, tra il tema dell’invasione dello spazio domestico sviluppato in “Madre!” e l’irrazionalità sadica ed irritante de “Il sacrificio del cervo sacro”: “Shiva baby” è un’opera claustrofobica e “crudele” – quasi fastidiosa – che amplia la componente thriller/horror “sfruttando” il tema del disagio generazionale.
Il film, esordio alla regia ed evoluzione di un omonimo cortometraggio scritto e diretto dalla stessa regista, si focalizza sul personaggio di Danielle, una studentessa ancora incerta su quale strada prendere e cosa fare del proprio futuro. Dopo una mattinata “stressante” con il suo “sugar daddy”, si ritrova ad un funerale (shiva, cerimonia funebre ebraica) in cui c’è tutta la sua famiglia, la sua ex fidanzata e anche il suo “sugar daddy”, accompagnato da moglie e figlia. Tra richieste insistenti dai familiari, insinuazioni inopportune su presunti disturbi alimentari, critiche, accondiscendenze e difficoltà a spiegare (prima di tutto a se stessa) il suo percorso accademico, Danielle rimane intrappolata dall’indifferenza e la claustrofobia di un luogo che, pian piano, la porta all’esasperazione. La regista sceglie di svolgere l’azione un solo posto e nell’arco di una sola giornata e opta per una situazione verosimile; cattura, cioè, la frustrazione di una giovane donna in un contesto (che, nonostante si tratti di un funerale, è comunque una circostanza in cui si riunisce una famiglia) in cui si è costretti a rispondere a domande scomode e fuori luogo. I discorsi imbarazzanti e le espressioni di disagio, uniti al pianto di una bambina e al fastidioso suono di un violino in sottofondo – che ricorda, ancora, le colonne sonore dissonanti di Lanthimos – stridono, creando una situazione di malessere e una sorta di nausea che facilmente sfocia in un attacco di panico.
Emma Seligman vuole raccontare le difficoltà di crescere da un punto di vista “disturbante”; vuole soffermarsi, cioè, sulla confusione che si avverte – sia nella vita privata che in quella professionale – quando si hanno vent’anni. “Perché a vent’anni è tutto ancora intero/perché a vent’anni e tutto chi lo sa”, canta Guccini. Danielle nasconde a tutti “pezzi” della sua vita: è una studentessa incerta, è l’amante – a pagamento – di un uomo adulto, è un’aspirante “imprenditrice”. Tutti questi “pezzi” rischiano di venire svelati per le pressioni della famiglia, ma anche e soprattutto perché è la stessa Danielle a non reggere più una situazione in cui deve nascondersi. Quello che lei ritiene Potere (ottenuto grazie al corpo o alla sessualità) è, in realtà, una forma profonda di insicurezza e insoddisfazione personale. Il potere sessuale esiste solo e soltanto nella forma in cui si è realmente padroni di sé perché si conosce (e si rispetta) il proprio corpo, i propri desideri e i propri piaceri. Tutto il resto è (inconsapevole) sofferenza, mancanza di autostima o anche soltanto “fretta” nel voler acquisire una maturità sessuale che, per forza di cose, si raggiunge con le esperienze. Danielle pensa di emanciparsi vivendo il “proibito” e andando a letto con un uomo più grande, scoprendo, poi, di non saper gestire la tensione nel momento in cui ci si ritrova a parlare fuori da una camera da letto e, in più, con sua moglie e sua figlia.
La regista riflette sulle difficoltà di costruire il proprio carattere, di conquistare il proprio diritto alla parola e di compiere scelte alternative a quelle già prescritte. Quando le aspettative degli altri prendono il controllo della propria vita, inevitabilmente, si soccombe. L’esasperazione, poi, facilmente si trasforma in un gioco al massacro, in un’invasione e in una distorsione dello spazio vitale; ci si ritrova, così, di fronte ad un sadismo che pervade ma intriga e che spinge lo spettatore alla ricerca disperata di una via d’uscita. Tutto è soffocante: è come se fosse una visione in apnea. “Shiva baby” è un’esplorazione, un racconto di formazione, un esercizio cinematografico. È un’opera che sceglie di spiegare – ma non di giustificare – le scelte che si prendono quando ancora non si conosce se stessi. È un’opera assuefante, che costruisce e aggiunge tensione.