di Mariantonietta Losanno
Wes Anderson scrive una vera e propria lettera d’amore al suo cinema (che si ripete costantemente), al giornalismo e al valore dell’informazione. “The French Dispatch” è – forse – sempre lo stesso film, ma non è detto che sia un problema; rispecchia, anzi, la cifra autoriale di Wes Anderson e, quindi, sintetizza l’idea di cinema “pieno”.
Pieno di colori, di cui il regista si serve per far relazionare i personaggi allo spazio che li circonda e per enfatizzare le sensazioni e le emozioni; pieno di simmetrie e di inquadrature che risultano protagonisti quanto la storia del film; pieno di eccentricità e di nevrosi (meno “isteriche” e filosofiche di quelle dei personaggi alleniani e più “sopra le righe” come quelle morettiane); pieno di ironia e di atmosfere leggere che nascondono fragilità; pieno di colonne sonore sempre inerenti al contesto e mai fuorvianti. “The French Dispatch” è una collezione di storie, un collage di corti che si ispira – forse – a “Coffee and cigarettes” di Jim Jarmusch per il bianco e nero, per lo stile surreale, per la divisione in episodi/“pillole” sullo stesso tema e con lo stesso stile, collegati da un unico filo conduttore che per Anderson è il giornalismo e per Jarmusch il momento in cui si fuma una sigaretta sorseggiando un caffè. Anderson si sofferma a ragionare come i punti di riferimenti abbiano perso sostanza ed idee: è finito il “vero” giornalismo?
Quando muore il direttore di una rivista americana (che ha sede in un’immaginaria cittadina francese, Ennui-sur-Blasé), i suoi collaboratori si riuniscono per scrivere un necrologio “di gruppo”. Ne vengono fuori quattro storie, arricchite da dialoghi pungenti, vicende improbabili (che riguardano un artista condannato all’ergastolo, rivolte studentesche e un rapimento risolto da un cuoco) e personaggi surreali. Dal bianco e nero ai colori, dal dramma all’ironia: “The French Dispatch” è una raccolta di colori, suoni e registri narrativi differenti. Un flusso di coscienza – come quello dell’“Ulisse” di Joyce – assemblato dal regista in modo tale da omaggiare il giornalismo “che non si vende”, ma non solo; Wes Anderson dichiara le sue passioni: la rivista “The New Yorker” (per un tipo di scrittura che sta sparendo), la Francia e il suo cinema. “The French Dispatch” ricrea un piccolo mondo “fuori dal tempo”, che lo spettatore osserva – e assorbe – come se stesse vivendo una favola; c’è una malinconia che al tempo stesso consola e atterrisce in una realtà esagerata eppure minimalista.
Anderson impone il proprio criterio di “ordinare” il mondo. Dispone secondo criteri estetici o “emozionali” personaggi e storie: “The French Dispatch” si presenta come un film “inesauribile”, una “colorata” esperienza cinematografica filtrata attraverso lo sguardo visionario di un regista tanto astratto quanto concreto. Il suo intento di omaggiare il giornalismo è anche un’occasione per “prendere in giro” chi non è all’altezza di definirsi Giornalista. Anderson critica uno stile didascalico incapace di raccontare dettagli o – ancora di più – di fare informazione; esalta, invece, quel cinismo che sa come prevalere sulle emozioni che possono sopraffare. Un cinismo, naturalmente, da contestualizzare e che non vuole contraddire il reporter polacco Ryszard Kapuscinski e il suo libro-intervista “Il cinico non è adatto a questo mestiere”; va inteso come capacità di dosare – e gestire – l’empatia e il distacco, in modo da essere consapevoli e adatti a cercare, analizzare e raccontare la Verità. I tratti distintivi di Wes Anderson, proprio per il loro eccessivo rigore, potrebbero (persino) esasperare; se non ci fossero, però, tutti quei dettagli meticolosamente organizzati, il “quadro” non sarebbe completo. E si può muovere qualsiasi critica, tranne quella che ritiene quello di Anderson un cinema “non completo”. Se non ci fossero tutti quei dettagli, non si potrebbe cogliere allo stesso modo la capacità del regista di citare il cinema, come ad esempio, non si potrebbe apprezzare una scena in cui compare una scritta simile a quella di “Brooks was here” de “Le ali della libertà”. E poi, in fondo, chi non vorrebbe vivere in un film di Wes Anderson? Forse è un universo fin troppo “sognante”, quasi infantile, ma che consente, però, di abbandonarsi alla fantasia e alla leggerezza.