“RIFKIN’S FESTIVAL”: “QUEL CHE RESTA” DI WOODY ALLEN È UN OMAGGIO AL CINEMA

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di Mariantonietta Losanno 

Non si può pensare al Woody Allen di oggi senza pensare al Woody Allen di un tempo. Se così non si facesse, non si potrebbe comprendere come “Rifkin’s Festival” rappresenti un tentativo per il regista di “riassumersi”. Ci sono, infatti, tutte le caratteristiche del suo cinema e del suo Personaggio. C’è la malinconia di “Manhattan”, la “città dell’anima”, cosmopolita e personale, un po’ come la Rimini di Fellini; il narcisismo di “Io e Annie”, opera dichiaratamente autobiografica (che rappresenta una svolta per i vecchi temi alleniani uomo/donna, New York/Los Angeles, arte/vita), in cui, nel monologo iniziale, Woody/Alvy, si rivolge al pubblico come in uno show televisivo vecchia maniera e si rappresenta per la prima volta come Personaggio, come Comico di professione, che parla di sé (io…io…io) con i tratti di una confessione in pubblico. C’è la comicità irriverente, le riflessioni sulla morale, il nichilismo, la psicoanalisi che secondo Allen “libera i talenti che sono in noi perché ci costringe a conoscere meglio i nostri sentimenti”, ma soprattutto, c’è il cinema. 

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La struttura del film è fin troppo semplice: “Rifkin’s Festival” si serve di una storia di infedeltà per citare – attraverso i sogni – i grandi capolavori della storia del cinema. Troviamo sicuramente un “Allen minore” – dopo quarantanove film – ma non per questo meno ispirato, e soprattutto, ispirante. A metà tra l’omaggio e la parodia, Woody Allen riscrive e rivive alcuni passaggi cult di grandi classici del cinema europeo. Nel primo sogno ricrea una delle scene iniziali di “Quarto Potere” di Orson Welles, poi ricorda uno spezzone di “8½” di Federico Fellini, e cita una delle sequenze più amate del romantico “Un uomo, una donna” di Claude Lelouch. E ancora, Allen ripensa a Truffaut e alla sua capacità di “reinventare l’amore” in “Jules et Jim”: un film sulla passione e sulla libertà assoluta che ha manifestato un’idea rivoluzionaria di cinema, omaggiata poi da Bernardo Bertolucci in “The Dreamers”. Cita Jean-Luc Godard e “Fino all’ultimo respiro”, l’opera che ha segnato la nascita della Nouvelle Vague e del mito Jean-Paul Belmondo: una pellicola “anarchica” (un “grido”), piena di citazioni, allusioni e riferimenti. Omaggia Bergman ricordando “Il settimo sigillo” e mostrando le reazioni dell’uomo di fronte all’incomprensibile, al dubbio sull’effettiva esistenza di un disegno divino e provvidenziale; “Il posto delle fragole”, meditazione “serena” sulla vita e la morte, film sul tempo, sul cambiamento e sulla paura; “Persona”, intensa riflessione sul conflitto tra l’essere e il sembrare, indagine psicoanalitica sulle “maschere” e sull’individuo e opera di puro godimento estetico. Altre pellicole, poi, vengono solo citate, come “A qualcuno piace caldo”, “Il ginocchio di Claire”, “Il deserto rosso”, “Kagemusha – L’ombra del guerriero”

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Queste “citazioni nella dimensione dei sogni” compongono praticamente tutto il film: “quel che resta” di Woody Allen è (solo) un’ode al cinema. Si avverte la “stanchezza”, ma nonostante questo, c’è comunque la voglia di raccontare e raccontarsi: il cinema di Woody Allen è, in fondo, una terapia ininterrotta, non importa con quali risultati. È un’esigenza, come quella che espresse Fellini in un’intervista in cui disse “Io so fare solo questo”. E “Rifkin’s Festival” si può concedere persino la “stanchezza” perché consente di recuperare, attraverso i sogni, capolavori del passato per confrontarsi con loro con una giusta dose di ironia. E se è vero che “basta che funzioni”, “Rifkin’s Festival” funziona: Allen “scherza” con il (suo) cinema e si pone, per l’ennesima volta, le stesse domande scomode che sembrano non chiarirsi mai. Forse i soliti strumenti “alleniani” questa volta non aggiungono molto, ma sono comunque godibili: è il cinema, però, a fare “tutto da sé”. “Rifkin’s Festival” e il suo “fascino discreto del capolavoro mancato”, sono la dimostrazione di come Allen diriga quasi in “automatico”, stimolato (forse) solo dalla sua passione per il cinema: la pellicola si presenta come una galleria di volti, una sorta di archivio per cinefili o nostalgici.