di Mariantonietta Losanno
“Probabile”, “possibile”, “forse”: queste tre parole ricorrono inevitabilmente in qualunque tentativo di descrivere – anche vent’anni dopo la sua uscita – quel “fantastico enigma” che è “Mulholland Drive”. E sono tre parole in più rispetto a quelle che è disposto a dire lo stesso Lynch, perché consapevole che, se la “verità” venisse rivelata, il sogno che è “Mulholland Drive” – che presenta una struttura narrativa simile a “Strade perdute” – morirebbe. In questo senso, quindi, la parola è “nemica” dell’opera: il film sembra sfidare la logica che governa la veglia, ma lo si percepisce come un’unità coerente e stranamente priva di punti di sutura, nonostante sfugga all’indagine razionale. Se il sinistro mantra di “Twin Peaks” era “Fuoco cammina con me”, il ritornello inquietante di “Mulholland Drive” è “È lei la ragazza”, una frase su cui si stratificano significati diversi, a seconda di chi la pronuncia e in quale momento. Quella che risuona come un’affermazione vagamente minacciosa quando la si sente per la prima volta, si tramuta nel finale, per effetto delle rivelazioni sempre più complesse attraverso cui viene filtrata, in un ordine esplicito e mortale.
Se sono un “sogno” i primi due terzi del film, in cui Betty Elms cerca di aiutare Rita, colpita da amnesia, a scoprire la sua vera identità; è “realtà” l’ultimo terzo, in cui Betty si trasforma nella tossicodipendente fallita e destinata al suicidio Diane Selwyn, mentre Rita diventa Camilla Rhodes, la sua “perfida” amante? O è forse il contrario? La narrazione del primi due terzi – il possibile sogno “appagante” di Diane – è coerente e fluida, qualità entrambe non proprio oniriche. Il sogno, poi, non sembra collocarsi in un momento specifico della vita del personaggio (persino la “fuga psicogena” di Fred Madison in “Strade perdute” obbediva a questa convenzione, perché si innescava mentre si trovava chiuso in una cella); la possibile “realtà” dell’ultima parte del film, invece, è raccontata come un sogno/incubo e si presenta discontinua e astratta. Entrambe le parti potrebbero essere lette l’una come una differente versione dell’altra. Lo spettatore si trasforma, allora, in un detective e seguendo l’esempio dell’agente speciale Dale Cooper che indaga sulla morte di Laura Palmer, fa affidamento non solo sulla razionalità, ma anche sui propri poteri “spirituali” e sulle proprie facoltà intuitive per riuscire a percepire in “Mulholland Drive” un nucleo logico. Los Angeles, poi, è – per molti aspetti – la mente e il personaggio principale dell’opera. È la “fabbrica dei sogni”, un luogo dove ognuno brama di diventare qualcuno altro, o qualcos’altro. Se, però, permette ad alcuni sogni di avversarsi, fa a pezzi tutti gli altri. È una città volubile, fragile e finta. La forte personalità attribuita ai luoghi, naturalmente, è tipica dell’opera di Lynch. Come “Mulholland Drive” sembra narrato dal punto di vista della città – che genera i personaggi e le storie – così gli eventi misteriosi e violenti nella cittadina di “Twin Peaks” erano una diretta emanazione delle forze misteriose che abitavano quel particolare paesaggio. Quelle forze “erano” la cittadina, vera protagonista dello spettacolo; la serie, però, non si intitolava “Vita e morte di Laura Palmer”, così come “Mulholland Drive” non si chiama “La storia di Diane Selwyn”.
“Hai un’idea, che un momento prima non c’era: arriva all’improvviso! E quando arriva si porta dietro un’ispirazione e un’energia che ti entusiasmano. In principio l’idea è molto piccola, poi si espande e si mostra nella sua interezza. Allora la immagazzini nella memoria, il che ti permette di esaminarla ancora un po’. È già completa in realtà. [..] È così che funziona: qualcosa comincia ad accadere, ma un momento prima non c’era”, ha raccontato Lynch in un’intervista. Rita/Camilla e Betty/Diane si perdono l’una dentro l’altra – come in “Persona” di Bergman – e, nello stesso tempo, lo spettatore si perde in una dimensione che ha la capacità di avvolgere, sorprendere e disorientare. Un’opera, prima di ogni altra cosa, “libera”: in “Mulholland Drive” è tutto vero e tutto falso, è un “mondo aperto” in cui possiamo collegare – a nostro piacimento – fatti, luoghi e nomi. È un insieme di frammenti, di indizi e di connessioni: un’opera che mette in discussione il “racconto tradizionale” e si presenta come “viaggio emozionale”, in cui la messa in scena opera a livello sensoriale. L’illusione è il fulcro della pellicola e la “scatola blu” si presenta come l’oggetto capace di catalizzare l’insieme di suggestioni che Lynch cerca di unire e separare, lasciando che il razionale e l’irrazionale rimangano in sospeso incontrandosi e sfuggendosi costantemente.
Più che comprendere, allora, si tratta di “sentire” e di soffermarsi sul valore essenziale del non-identificato e del non-detto. Quella che potrebbe essere vista come “semplice astrattezza” è una suggestività atmosferica che non va ridotta a una formula intellettuale o “chiusa” in una descrizione definitiva. Quel senso di meraviglia affascina e al tempo stesso provoca frustrazione. Lynch lavora con tutti gli elementi del cinema (le strutture del suono e dell’immagine, i ritmi del linguaggio e del movimento, lo spazio, il colore e il potere intrinseco della musica); l’indefinibile stato d’animo che i suoi film suscitano è strettamente legato a una forma di disorientamento e di inquietudine. L’inquietudine, però, non risiede semplicemente in “ciò che è strano, bizzarro o grottesco”, ed è l’opposto di quelle cose che, in virtù della loro esagerazione, rifiutano di provocare paura. Le caratteristiche dell’inquietudine, di ciò che Freud definì “il campo di ciò che spaventa”, sono quelle del timore, più che del vero terrore, della percezione di presenze, più che della loro apparizione. Per dirla con Freud: “L’inquietudine è tale proprio in quanto fin troppo familiare, ed è questo il motivo per cui viene rimossa”. Questa è l’essenza del cinema di Lynch.