di Mariantonietta Losanno
“[…]Ma il nostro amore era molto, molto più saldo dell’amore dei più vecchi di noi (e di molti di noi assai più saggi): né gli angeli, in cielo, lassù, né i demoni, là sotto, in fondo al mare mai potranno separare la mia anima dall’anima di Annabel Lee”, ha scritto Edgar Allan Poe nel suo poema “Annabel Lee”, raccontando un amore ideale di straordinaria intensità. Quando si pensa alla “letteratura dell’orrore”, uno dei primi autori ai quali ci si riferisce è certamente Poe, considerato un vero e proprio maestro del genere. E chi, meglio di Poe, può presentarsi come un autore “adatto” a raccontare quella che ne “Il Corvo” viene definita “la notte del diavolo”, a causa della puntuale esplosione di violenza in città.
Basato sul fumetto di James O’ Barr, “Il Corvo” racconta la storia di Eric Draven, un musicista rock che viene resuscitato per vendicare non solo la propria morte, ma anche lo stupro e l’omicidio della sua fidanzata. Il film (diventato un cult anche – purtroppo – a causa della morte di Brandon Lee rimasto vittima di un grave incidente sul set per un colpo d’arma da fuoco), si concentra sul concetto di “vendetta”, ma anche e soprattutto, su quello di “purificazione”. Si tratta, cioè, di una sorta di “missione”: Eric vuole ripulire – proprio come la pioggia – tutto il male che alberga nella società, nonostante sembra non ci sia alcuna possibilità di redenzione. E vuole farlo per evitare che si viva in un mondo di sole sofferenze, paure e prevaricazioni. Agisce per vendicare se stesso e – in modo più ampio e complesso – l’idea di Potere. Quel Potere che nasce dal bisogno di sfogare le proprie pulsioni violente e sopite troppo a lungo, dalla necessità di “ribellarsi” alle imposizioni ed evadere dalla quotidianità, per dare un senso – seppure distorto – alla propria vita. Perché, appunto, “non può piovere per sempre”, e solo dopo avere eseguito il suo compito e avere “purificato” la terra, Eric può lasciarsi andare ad una “seconda morte”, questa volta più pacifica.
Nonostante oggi la cinematografia horror venga ancora considerata con una certa “diffidenza” dalla critica, etichettandola quasi come un “cinema di serie B, “Il Corvo” si impone nella cinematografia di genere anche solo per il fatto di essere “un film maledetto”, insieme a tante altre pellicole come “La casa dalle finestre che ridono” di Pupi Avati, “Nightmare” di Wes Craven, “Rosemary’s Baby” di Roman Polański, “Suspiria” di Dario Argento, “The Rocky Horror Picture Show” di Jim Sharman, e così via, evitando di citare gli horror “banali” che non prevedono alcun approfondimento psicologico. Quello che rende “Il Corvo” un classico del genere, oltre allo stile visivo e alla sceneggiatura, è, innanzitutto la colonna sonora perfettamente armonizzata con le tinte “dark” e composta da brani di gruppi come i Rage Against The Machine, gli Stone Temple Pilots, i Cure e i Pantera; la prevalenza di colori tetri e di un’atmosfera gotica e decadente; i dialoghi di forte impatto emotivo, incentrati sull’amore (oltre la morte), sulla violenza e sulla vendetta; la pioggia, divenuta il vero emblema del film, che non smetterà di cadere finché Eric non avrà finito di ripulire l’intera città dal Male. È impossibile non sentirsi “vittime” (“Vittime, non lo siamo tutti?”), anche solamente pensando alla morte dell’attore avvenuta in circostanze poco chiare, ma l’intento dell’opera (estremamente citazionista, dai Joy Division a Edgar Allan Poe, per quest’ultimo sin dal titolo) è quello di “liberarsi” dall’odio per concentrarsi sull’amore che “non muore mai”, che non si consuma e continua a bruciare.