di Mariantonietta Losanno
Nel guardare al carcere – se possibile – dal punto di vista di chi è “dentro”, dovremmo domandarci se sia la reclusione in sé ad essere patogena, prima ancora che nei suoi nuovi abusi ed eccessi. È il carcere in sé che fa “ammalare”? E, soprattutto, se anche quell’insieme di norme che si propongono di garantire alle persone in stato di detenzione la stessa tutela accessibile ai cittadini liberi funzionassero, sarebbe sufficiente? Il carcere come istituzione avrebbe, allora, (più) ragione d’esistere? Quando ci chiediamo come la coercizione fisica si ripercuota sulle persone recluse non si può fare una distinzione netta tra “corpo” e “mente”: bisogna guardare alla stretta connessione tra l’uno e l’altra, all’impossibilità, anzi, di stabilire un confine tra questi che non sono due ambiti, perché si compongono in uno solo, cioè la “persona”. Per molti detenuti c’è un’idea di fondo, nonostante oggi si parli di “carcere modello” o “carcere moderno” e, cioè, che i detenuti “devono” soffrire, come parte irrinunciabile della pena che spetta loro. D’altra parte, le giustificazioni che ci diamo per l’esistenza del carcere sono quelle di sempre: deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli internati. Ma se la funzione educativa produce “sofferenza” (in un’accezione ampia del termine), possiamo affermare che non sia anche “punitiva”?
Siamo ormai lontani dallo “splendore dei supplizi” dell’età classica, che ha raccontato Michel Foucault in “Sorvegliare e punire”, in cui il corpo del condannato veniva sottoposto pubblicamente a una punizione “spettacolare”; e ci siamo sicuramente avvicinati, progressivamente, verso i progetti dei “riformatori” “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria e il “Panopticon” di Jeremy Bentham: in entrambi, il superamento delle pene “crudeli” viene orientato dalla razionalità e dalla moderazione attraverso un programma giuridico di “addolcimento delle pene” (nell’opera di Beccaria) e un impianto architettonico studiato (nell’opera di Bentham). A quella che viene chiamata “umanizzazione” si accompagna quindi l’intento deterrente della pena: non è più il corpo fisico il bersaglio della detenzione, è colpito al suo posto il corpo vivente, che viene sottomesso a una politica di rieducazione ben più efficace. Leonardo Di Costanzo, attraverso “Ariaferma”, vuole raccontare la verità. E, nel farlo, vuole soffermarsi non tanto sulle condizioni delle carceri italiane – nonostante la riflessione su questo aspetto nasca spontanea – ma sull’“assurdità” della vita al loro interno.
La pellicola è ambientata in un carcere che sta per essere chiuso. Arriva, però, un contrordine: dodici detenuti ed alcuni agenti della polizia penitenziaria saranno costretti a restarci ancora per un periodo, perché la struttura che dovrebbe accogliere gli utenti non è ancora disponibile. Molte aree del carcere sono già chiuse (tra cui la cucina) e i colloqui con i familiari sono sospesi; gli spazi, dunque, si riducono ulteriormente e il senso di vuoto diventa ancora più insostenibile.
“Ariaferma” si pone un’unica importante domanda: qual è il modo giusto per rieducare? Gli atti di compassione – da non confondere, in un’accezione negativa, con la pietà – possono essere “confusi” e intesi come sintomo di debolezza? O, invece, come un modo per non disumanizzarsi? “Ariaferma” ci mostra, addirittura, momenti di convivialità tra il corpo degli agenti e i detenuti: anche questo può essere contrario al rigore e al senso della rieducazione o aiuta ad abbassare qualche “difesa” e a rendere i rapporti più umani e, quindi, più capaci di produrre un cambiamento? “Ariaferma” rimane, allora, in sospeso tra più punti di vista e tra l’impossibilità di garantire una rieducazione se ci si allontana dalla compassione e dall’umanità. “Di respirare la stessa aria dei secondini non ci va”, cantava De André in “Nella mia ora di libertà”: quanta ostilità c’è (ancora) tra il corpo della polizia penitenziaria e i detenuti? La diversità dei “ruoli” crea sempre più “frustrazione”, ma in una situazione “assurda” in cui il cibo è scadente a causa dell’assenza di un cucina e in cui, addirittura, arriva a mancare l’elettricità, il contatto umano non è – forse – l’unica strada percorribile per evitare pericoli di ogni genere?
L’aria è ferma, come il tempo. Di Costanzo si distanzia dalle regole del “tradizionale prison movie”, per suggerire, invece, una riflessione sul carcere in sé e sulla capacità di chiamare in causa la responsabilità di “rendersi umani”, di pensarsi come individui prima che come carcerieri o carcerati. Allora, quell’aria “fredda, ferma e stantia” diventa più sopportabile. Annullare i ruoli non vuol dire, però, annullare anche le coscienze: se da una parte c’è la consapevolezza di una “superiorità” che deriva da una coscienza pulita, dall’altra c’è un’incoscienza “pericolosa”. “Ariaferma” vuole parlare della “malattia del tempo”. Basti pensare che il principale metro di misura delle pene sono i mesi e gli anni di detenzione; si può facilmente comprendere, allora, come il tempo rappresenti, per certi versi, una “tortura”. In una sorta di “limbo irreale”, allora, i confini tra guardie e prigionieri si fanno più sottili, dando vita a compromessi e a nuove forme di relazioni. Non esistono sempre confini netti. Ci sono situazioni e condizioni per cui venire meno a una regola non vuole smettere di credere nella sua validità, ma semplicemente cercare un altro modo per renderla efficace.
Di Costanzo “intrappola” lo spettatore in un’atmosfera di spaesamento, invitandolo a soffermarsi su quanto, a volte, basti un minimo gesto di conforto a fare la differenza tra il sollievo e la disperazione. “Ariaferma” ci pone in un tempo illimitato da vivere in uno spazio limitato: scaturisce un’analisi lucida del carcere come istituzione totale (che Erving Goffman ha analizzato nella sua opera “Asylums”), che analizza come l’ambiente venga “assorbito” dal corpo. “Ariaferma” è un’opera atipica all’interno del panorama del cinema italiano, un’opera “da tenersi stretta” e che “stringe” un po’ di più ognuno di noi verso un’idea di umanità e di rieducazione che non risenta eccessivamente di rigidi – e disfunzionali – schemi.